Lost in favelas
Tra i film selezionati per questa undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, La Mujer del Animal rappresenta forse il pugno allo stomaco più difficile da mandare giù. Ben vengano ovviamente proiezioni così. Perché opere come quella diretta dal colombiano Víctor Gaviria, mantenendo una tensione narrativa costante, aprono gli occhi su certe realtà degradate dell’America Latina puntando l’obiettivo, senza troppi filtri, sul clima di violenza e sopraffazione generato dalla povertà estrema, sui persistenti traumi dovuti a golpe feroci e attività di guerriglia, su infanzie disperate, nonché su quel machismo imperante che è spesso causa di vessazioni e maltrattamenti inauditi, nei confronti del genere femminile. Proprio quest’ultimo aspetto è il fulcro evidente di un così teso, selvaggio, torbido racconto cinematografico.
Cineasta, scrittore e poeta di forte spessore, Víctor Gaviria viene considerato sia in Colombia che all’estero una delle voci più autorevoli, per la cultura cinematografica del proprio paese. Del resto i suoi primi lungometraggi, Rodrigo D: no futuro (1990) e La vendedora de rosas (1998) avevano spalancato alla piccola nazione sudamericana le porte di Cannes. E per quanto una così scarna filmografia conti pochissimi titoli, in ciascuno di essi il regista originario di Medellin ha saputo trasferire tutto lo sgomento, le preoccupazioni, la volontà di reagire, l’empatia e il profondo disagio, indotti in lui dal prolungato contatto con una terra martoriata da tanti, troppi conflitti e da altri sintomi di malessere sociale.
Volendo è emblematico che, proprio all’inizio de La Mujer del Animal, la fuga della giovanissima protagonista da un istituto di suore raffigurato alla stregua di tetra prigione, preluda attraverso il ricongiungimento con la sorella non a un miglioramento di vita, ma allo sprofondare in inferni persino peggiori. Si dà il caso, infatti, che la sorella sia disposta a ospitarla e cercarle anche un lavoro, ma all’interno della sordida favela che si scoprirà ben presto alla mercé di un violento e sfrenato criminale, quel Libardo noto a tutti come “l’Animal”.
Per somma disgrazia proprio Amparo, la ragazzina interpretata con una splendida energia da Natalia Polo, verrà subito presa di mira dallo squallido e disumano individuo, il quale, oltre a sfogare su di lei le proprie insane pulsioni, finirà per trasformarla in una specie di schiava sessuale, maltrattata di continuo e costretta anche a partorire la figlia del mostro dopo l’ennesimo stupro. Tutto ciò nel silenzio generale, perché gli altri abitanti della favela (compresa la sorella) sono terrorizzati alla sola idea di doversi confrontare con il famigerato ‘Animal’ e la sua banda di tagliagole.
Da tali premesse si può facilmente intuire quanto arrivi a essere crudo e sconvolgente, il serratissimo lavoro cinematografico di Víctor Gaviria. A fare il resto sono l’estremo realismo dell’ambientazione, le ellissi che con grande maestria agganciano lo scorrere del tempo al continuo susseguirsi di sofferenze fisiche e interiori, l’interpretazione sanguigna e ferina dello sguaiato Tito Alexander Gomez (l’odiato ma al contempo temutissimo ‘Animal’), più ovviamente il concretizzarsi nel racconto di una lodevole visione etica, che non si limita a stigmatizzare i morbosi e brutali comportamenti del protagonista maschile, ma si sofferma anche sulle strategie di sopravvivenza e sulla strenua difesa della propria dignità da parte della povera Amparo.
Stefano Coccia