A Star is Burning
Il fascino di un simbolo come James Dean continua a colpire l’immaginazione del mondo del cinema contemporaneo. Comprensibilmente, oseremmo dire, per il carico di valenza simbolica che l’attore si porta dietro a ben sessant’anni dalla prematura scomparsa.
Nel caso di Life – che racconta del curioso rapporto instauratosi tra il fotografo free-lance Dennis Stock ed il giovanissimo divo de La valle dell’Eden, nonché della genesi del servizio fotografico che il primo fece sul secondo e che finì pubblicato sulla nota rivista Life, appunto – però un soggetto di partenza potenzialmente assai foriero di approfondimenti stimolanti non diventa il grande film che avrebbe potuto essere. Il “peccato originale” del lungometraggio firmato da Anton Corbijn, di suo non esattamente una garanzia di qualità artistica (il pessimo The American, il discreto La spia – A Most Wanted Man), risiede nella scelta di girare un film rispettando tutte le convenzioni iconografiche che la mitica figura di James Dean si è costruita in questo lasso di tempo. Privilegiando dunque un ipotetico punto di vista spettatoriale che poco o nulla conceda al rischio di una visione autoriale della materia. Se la dignità del prodotto è salva soprattutto per le componenti tecniche (decisamente riuscita la ricostruzione di un’epoca irripetibile, sia per il cinema che per il modus vivendi generale negli States), il risultato finale lascia un bel po’ di amaro in bocca per tutto ciò che il film avrebbe potuto rappresentare e invece si è ben guardato dal farlo. Il contrasto tra abbaglianti luci dello star system e le sofferenze di vita vissuta è raffigurato in modo a dir poco didascalico, mentre il senso di ribellione del giovane James Dean – inquadrato nell’anno della consacrazione e assieme della scomparsa, il 1955 – si limita al rifiuto della macchina hollywoodiana che tenta, a più riprese, di fagocitarlo, “normalizzandolo” al rango di star qualsiasi. L’approfondimento psicologico del personaggio si ferma alla prematura perdita della madre, ritenuta unica origine delle sue fragilità e delle proprie insicurezze con la controparte femminile. Anche il bravo Dane DeHaan, l’attore che lo interpreta, pare trovarsi ingabbiato in una ricostruzione filologica che non gli concede alcun margine di movimento se non quello di una instabilità umorale di pura superficie: il disperato desiderio di rimanere attaccato alla sue origini viene descritto da Corbijn e dallo sceneggiatore Luke Davies alla stregua di una incapacità di crescere più consona ad un Peter Pan qualsiasi piuttosto che propria di un personaggio autenticamente tridimensionale. L’effetto patetismo – che forse era quello che cercavano gli autori – è assicurato; l’empatia nei suoi confronti decisamente no.
Anche sul versante dell’amicizia tra il divo in pectore e Stock, che pure avrebbe potuto aprirsi a vertigini impensate, si resta su un binario di scorrimento abbastanza convenzionale. Nessun accenno ad un’attrazione di carattere sentimental-sessuale, nessuna discesa nella complessità di un rapporto tra due personaggi dall’esistenza tormentata; solo il bisogno da parte di James Dean di una figura di riferimento capace di stargli a fianco nel momento del bisogno. Così, invece di destare inquietudine e disagio nello spettatore, si cerca la sua presunta complicità attraverso il racconto di una storia dagli accenti più simili a quella del libro “Cuore”, piuttosto che ad una sincera stratificazione esistenziale. Sequenza di sculto, tanto per definire meglio il grado di sottigliezza dell’insieme, quella in cui Stock (un Robert Pattinson di ingessata fissità), dopo una notte brava a base di alcol e droga in compagnia di James Dean, vomita addosso al figlioletto da lui trascurato per inseguire sogni di gloria di seconda mano nel dorato mondo di Hollywood.
Insomma Life è un film che rischia di rendere James Dean il classico “santino”, figura retorica che lo stesso attore avrebbe di certo aborrito, se fosse ancora in vita. Se proprio ci si vuole accontentare, si potrebbe considerare allora Life una sorta di rivisitazione mitologica di Dean per le nuove generazioni cinefile, utile a non far affondare nell’inevitabile oblio del tempo che scorre un’icona comunque ben più rilevante di quella descritta da Corbijn e soci in un’operina che si dimentica un minuto dopo la sua visione. Nonostante l’evocativa duplicità del titolo.
Daniele De Angelis