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Lesson Learned

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VOTO: 8

La rivolta silenziosa

Il destino ha voluto che, dopo i successi ottenuti al 77° Festival di Locarno, le strade di Toxic e Lesson Learned (Fekete pont) rispettivamente opera prima di Saulė Bliuvaitė e Bálint Szimler, si incrociassero nuovamente nel concorso della 36esima edizione del Trieste Film Festival e che entrambe le pellicole vincessero dei riconoscimenti alla kermesse giuliana. Se al primo è andato il premio per il miglior film, al secondo è stata attribuita invece una menzione speciale. Ed è da quest’ultima, assegnata dalla giuria composta da Sabine Gebetsroither, Ilinca Manolache e Paolo Moretti, che vogliamo partire per sottolineare quelli che sono i meriti riconosciuti al film del regista di origini magiare che «presenta una scuola come un microcosmo di una società più ampia — quella dell’Ungheria contemporanea — mettendone a nudo i valori prevalenti e le tendenze politiche. L’autenticità delle situazioni in classe e delle dinamiche tra studenti, insegnanti e genitori rende le ingiustizie rappresentate ancora più evidenti e il commento sociale ancora più urgente». Motivazione, questa, che condividiamo e alla quale si accodiamo per mettere a nostra volta Lesson Learned sotto la lente d’ingrandimento critica.
Il film è infatti un ritratto assai realistico del sistema scolastico ungherese, che viene mostrato attraverso gli occhi di una maestra, Juci, e di un alunno appena arrivato dalla Germania di nome Palkó. Da una parte la nuova insegnante di letteratura prova a sfidare i datati metodi didattici della sua scuola con un approccio diverso per coinvolgere gli studenti, che vada oltre la semplice osservanza del programma. Dall’altra un bambino di dieci anni cerca a fatica di adattarsi a un sistema educativo così esigente, rigidamente regolamentato, dopo essere stato abituato a un approccio più disinvolto. Entrambi lottano portando avanti una rivolta silenziosa contro qualcosa o qualcuno che quel qualcosa rappresenta. Le loro storie personali e le rispettive prospettive offrono così uno scorcio su questo sistema oppressivo, che riflette in scala e in chiave metaforica l’intera società magiara. La mente torna per dinamiche e modus operandi, oltre che per l’ambientazione, al norvegese Beware of Children e al tedesco La sala professori. Szimler dal canto suo immerge completamente lo sguardo nell’habitat scolastico, senza mai abbandonarlo e rimanendo con la cinepresa per l’intera durata della timeline all’interno della topografia, palleggiando giorno dopo giorno tra le aule, gli spazi comuni e i locali destinati al corpo docente. Lo fa con inquadrature claustrofobiche dal taglio geometrico negli interni, il cui effetto viene ulteriormente amplificato da una macchina da presa che si tiene costantemente attaccata e a distanza ridotta dai personaggi, con frequenti primi piani che servono al regista per scrutarne e restituirne gli stati d’animo e il mutare delle emozioni cangianti e contrastanti. E a supportare il tutto arrivano le convincenti performance degli interpreti (in gran parte non professionisti) chiamati in causa, a cominciare da quelle del piccolo Paul Mátis e di Anna Mészöly, quest’ultima meritatamente premiata con il Pardo a Locarno 2024.
Prende così forma e sostanza un film coinvolgente e iperrealistico, dalla grande capacità di osservazione psicologica, che affonda le proprie radici narrative ed estetico-formali in una visione di tipo antropologica e semi-documentaristica. Con e attraverso di essa lo spettatore assiste a uno scontro tra approcci conservatori e liberali all’istruzione, che allarga il proprio spettro d’indagine tematica all’autocensura e a una disamina oggettiva dell’Ungheria contemporanea, del modo in cui viene governata e dell’atmosfera ostile che ne deriva. E pensare che un’opera tanto significativa ed importante ha rischiato seriamente di non venire mai alla luce, probabilmente per via delle posizioni dichiaratamente critiche assunte e delle argomentazioni trattate. Per fortuna un movimento spontaneo nato dalla collaborazione di una serie di produzioni indipendenti locali e non ha sopperito alla mancanza di finanziamenti pubblici, permettendo al film di arrivare sul grande schermo.

Francesco Del Grosso

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