Il ghiaccio dell’anima
L’industria cinematografica del Québec, grande provincia canadese a maggioranza francofona – per l’esattezza, l’idioma definito francese quebecchese, la varietà principale del francese canadese – è relativamente giovane ma già fautrice di realtà importanti. La libertà produttiva giunge solo nel 1960, dopo l’istituzione dell’Office national du film – branca del National Film Board of Canada – poiché fino a quel momento il clero cattolico interveniva pesantemente su ciò che la popolazione dovesse o non dovesse guardare. La giovane regista Sophie Deraspe, classe 1973, che con Les Loups è al suo quinto lavoro, ha già riscosso un notevole successo di critica grazie alle sue precedenti opere: a partire dal suo primo lungometraggio, Rechercher Victor Pellerin (2006), film-inchiesta incentrato su di un pittore scomparso in circostanze misteriose, la Deraspe si è fatta notare per il suo personale discorso sullo sguardo, sulla linea sottile tra realtà e finzione, tematiche che attraverseranno le sue pellicole successive. Nel 2015, realizza due film: il documentario Le Profil Amina (titolo internazionale: A Gay Girl in Damascus – The Amina Profile), presentato al Sundance Film Festival dove ha ricevuto la nomination per il Gran Premio della Giuria, e questo Les Loups, presentato in concorso al Torino Film Festival in anteprima italiana.
In Les Loups, co-produzione franco-canadese, l’ambientazione gioca un ruolo fondamentale: teatro della vicenda – e luogo delle riprese – è l’isola denominata Grande Entrée, facente parte dell’arcipelago de La Maddalena, nel Quèbec orientale, e luogo natìo del padre della Deraspe, che per questo motivo visitò la località molte volte. La giovane Élie (eccelsa Évelyne Brochu), approda a Grande Entrée in inverno, lontana dalla stagione turistica, in un luogo inospitale, tra i ghiacci, in cui gli abitanti vivono di caccia alle foche e sono, per loro natura, diffidenti e sospettosi verso i forestieri, anche in seguito alle numerose minacce che ricevono dai gruppi animalisti. La protagonista si reca sull’isola apparentemente per riposarsi, per riprendersi dopo un intervento traumatico: vi sono però altre motivazioni che l’hanno condotta lì, e che si disveleranno nel corso del narrato. Élie soggiorna in un piccolo motel gestito da Nadine (Cindy-Mae Arsenault, ballerina che abita proprio in quei luoghi), in attesa di un bambino e amichevole verso la straniera e da Maria (ottima Louise Portal), madre e matriarca, inizialmente sospettosa nei confronti della giovane, sulla quale indaga, convinta che stia dichiarando il falso. E’ da sottolineare il concetto di allontanamento, estraniamento, già presente in Rechercher Victor Pellerin e in Un soffio di vita (2009), nel quale una donna abbandona tutto per dedicarsi all’assistenza a malati terminali; Élie è anch’ella una fuggitiva, giunta sul posto per un motivo ben preciso, legato al senso di appartenenza ed origine. Si allontana per ritrovarsi, venendo a contatto con una comunità per molti versi inizialmente ostile, dalla quale riesce, gradualmente e con fatica, a farsi accettare. La tematica della Natura è legata a doppio filo a quella del materno: la ragazza chiama la madre al telefono ma, di fronte alle sue domande insistenti, riattacca; forse lei stessa è genitore mancato, poiché l’intervento che ha subito potrebbe essere un aborto, seppur non ci venga detto chiaramente. In Maria trova una sorta di genitrice, dapprima diffidente, anche aggressiva, e in un secondo momento amorevole e affettuosa. Il rapporto con Maria può essere accostato a quello con la natura de La Grande Entrèe: Élie è inizialmente spaventata dal comportamento dei pescatori, rattristata e indignata davanti all’uccisione delle foche, timorosa di un habitat che è fautore di pace interiore ma, al tempo stesso, glaciale e insidioso. Una madre naturale con la quale è in conflitto, Maria (già dal nome materna per eccellenza) di cui dovrà conquistare la fiducia, una Madre Natura dal volto doppio e, in primis, se stessa, spaesata e disorientata, in cerca delle proprie radici.
La messa in scena lavora di sottrazione, offrendo ampio respiro ai magnifici scorci paesaggistici e marini, su cui si stagliano i volti e i corpi dei personaggi, che la Deraspe ha scelto mischiando attori del Québec a non professionisti abitanti dell’isola. Spiccano le presenze di un grande Gilbert Sicotte nel ruolo di Lon, patriarca bonario dalla barba bianca, e di Augustin Legrand, nei panni de “il francese”.
Les Loups conquista e avvolge lo spettatore, mettendo in scena la parte umana del “mostro”, ossia il cacciatore che uccide barbaramente, e conducendo chi guarda verso il finale, rivelatore e – forse – risolutivo. La Deraspe gira con mano delicata ed estremamente abile, per un film che è poetico e cruento al tempo stesso, sfaccettato ma disarmante nella sua semplicità. Il titolo ha una doppia chiave di lettura, poiché i lupi sono i pescatori/cacciatori, ma anche tutti gli abitanti del villaggio, la cui gerarchia è simile a quella di un branco; les loups sono inoltre le foche stesse, che in francese vengono anche definite “loups-marins”, vittime ma principale fonte di vita per la Grande Entrèe.
Un’opera di sconfinata bellezza, a cui abbandonarsi, come tra le braccia di una madre. Imperdibile.
Chiara Pani