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Les garçons sauvages

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VOTO: 8

Riti di passaggio

Selvaggio. Iniziatico. Esuberante. Visionario. Pulsante di eros e tenebra. Deliziosamente osceno. Dionisiaco. All’occorrenza crudele. L’immaginifico racconto di formazione portato sullo schermo dal francese Bertrand Mandico, esordiente, è stato a detta di molti la vera rivelazione della Settimana della Critica, alla 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. E almeno stavolta non possiamo fare a meno di allinearci al coro degli entusiasti. Poiché l’approccio stilistico e la polifonia semantica che contraddistinguono Les garçons sauvages lo rendono pressoché unico nell’attuale panorama cinematografico.

Nel suo balzare rapsodicamente dal bianco e nero al colore, mai per capriccio, bensì seguendo una specie di partitura musicale (e la colonna sonora stessa del film è un piccolo gioiello, dalla valenza ipnotica), ciò che si profila agli occhi dello spettatore è un morboso tragitto iniziatico, toccato in sorte a cinque adolescenti in balia di selvagge, incontrollabili pulsioni. Il lungometraggio di Bertrand Mandico propone all’inizio uno sregolato e violento rito orgiastico perpetrato dai cinque, suggestionati nel profondo da una singolare presenza demoniaca, con conseguenze così terribili da farli sottoporre al giudizio della comunità. Le loro famiglie, facoltose e influenti, otterranno che gli inquieti ragazzi vengano affidati alle cure di un misterioso capitano olandese, rivelatosi precedentemente in grado di trasformare giovani fuori controllo in soggetti docili e aggraziati, attraverso una dura esperienza in mare sulla barca di sua proprietà. La navigazione si dimostrerà infatti per i protagonisti un banco di prova tutt’altro che scontato, grazie al clima di segretezza ed ai metodi brutali e apparentemente folli del capitano. Ma ancora più sconvolgente si rivelerà l’approdo su un’isola non tracciata sulle mappe: praticamente un’isola/conchiglia da concepire quale essere vivente, le cui insidie e le cui insospettabili fonti di piacere inizieranno i giovani, vittime poi di un naufragio che ostacolerà la loro partenza, a un diverso livello di coscienza, sotto la guida dell’altra conturbante figura subentrata in corsa al già enigmatico capitano. Finché la loro stessa identità sessuale non ne risulterà modificata, stravolta…

Come in un torrente di energie sessuali sopite e poi lasciate fluire liberamente, l’immaginario sovreccitato del film di Mandico compie fino in fondo la sua missione di alveo, per una trasfigurazione onirica del passaggio alla vita adulta dai risvolti visivamente magnetici. Anche perché miracolosamente Les garçons sauvages non perde mai la sua originalità di fondo, la sua compattezza di metafora incentrata sull’eros, pur fagocitando con invidiabile naturalezza molteplici riferimenti cinefili e letterari, lungo il suo percorso.
Lo “scheletro” della narrazione assorbe in primis tutti i topoi del racconto e del cinema d’avventura, dalle punizioni in mare stile Gli ammutinati del Bounty all’esplorazione dell’isola misteriosa, in sé un grosso archetipo che sembra qui oscillare tra le suggestioni dei B-movies hollywoodiani e le implicazioni profonde presenti, ad esempio, nel cinema giapponese: col pensiero che corre dall’appeal più popolare di certi lungometraggi diretti da Inoshiro Honda fino ad opere di certo più sofisticate, sperimentali, come Onibaba di Kaneto Shindō. L’impianto iconografico è altresì degno di nota. La poetica di Jean Vigo è qui, in particolare con L’Atalante, possibile stella da seguire per tracciare una rotta fisica e sentimentale nell’animo turbato dei protagonisti. Per non parlare delle molteplici influenze estrapolabili dalla tradizione letteraria, da quelle di matrice scespiriana ai romanzi di Verne, fino a inglobare Il signore delle mosche tra i possibili prototipi. Ma la vera nota di merito, ribadiamolo ancora una volta, è che Les garçons sauvages riesce a essere tutto questo e altro ancora senza snaturarsi, riuscendo cioè a mantenere la propria inconfondibile autonomia estetica e narrativa.

Stefano Coccia

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