Addio al linguaggio
Michel Hazanavicius, con Le redoutable (Il mio Godard, nella versione italiana), presentato in Concorso al Festival di Cannes 2017, ha voluto girare un altro film, dopo The Artist, sulla storia del cinema, mettendone in scena un capitolo interessante, la storia d’amore tra Jean-Luc Godard e Anne Wiazemsky, nata sul set di La cinese e durata dodici anni. A interpretare il regista è un notevole Louis Garrel, che riesce a operare un interessante lavoro attoriale di mimesi nei confronti del grande protagonista della Nouvelle Vague. Stacy Martin invece presta il volto all’attrice senza la stessa aderenza, cosa del resto impossibile. Come si fa a ricreare quella faccia rimasta bambina della protagonista di Au hasard Balthazar? Ma sullo sforzo imitativo, Hazanavicius si arrende dopo Godard-Garrel, proponendo alla fine una sequela di macchiette trash, incredibili quelle di Bernardo Bertolucci e Marco Ferreri. Ma la questione del realismo e della verosimiglianza è relativa. I veri problemi insiti in un’operazione come quella di Le redoubtable sono soprattutto altri due. C’è la ampia e dibattuta questione della biografia artistica al cinema, che per forza di cose deve essere semplificata in varie forme che possono andare dall’agiografia alla parodia. In questo caso il film degenera inevitabilmente e rovinosamente verso la seconda. E in ogni caso la biografia dovrebbe passare attraverso le opere dell’artista che, in questo caso, trattandosi sempre della Settima Arte, ci porta al ragionamento sul cinema che parla di cinema. Raccontare il cinema di quella stagione con il cinema contemporaneo dovrebbe comportare in primo luogo confrontarsi con quel linguaggio e quelle immagini. L’operazione di Le redoutable sembra quella di certi allestimenti teatrali pomposi e declamati de Il Gabbiano di Čechov, non cogliendo le critiche inserite nello stesso testo a questa forma di rappresentazione. Studiando Godard, Hazanavicius non può non essersi imbattuto nella famosa concezione del protagonista della Nouvelle Vague, per la quale il modo in cui si mette la macchina da presa rappresenta una posizione morale. Mettere in scena il Maestro, come fa Hazanavicius con una regia normalizzata e stucchevole, non può che far assumere una posizione immorale, o, in altri termini, borghese. E non basta scimmiottare ogni tanto le scritte godardiane sullo schermo. E la consapevolezza, esibita in alcuni momenti di Le redoutable, “tutto è politica” dice a un certo punto Godard, non possono che confermare una deliberata operazione di appiattimento e normalizzazione. Non esiste, sia ben chiaro, il reato di lesa maestà cinematografica. Peter Greenaway con Eisenstein in Messico riesce in una burla/sberleffo nei confronti del grande formalista, che funziona proprio in quanto irriverenza.
Tutti quei giochetti metacinematografici, come quelli di The Artist – Godard/Garrel che dice: “Sono un attore che fa Godard”, le nudità di Godard e Wiazemsky mentre parlano di scene di nudo al cinema, Godard che si spara con la sua cinepresina – sono indicativi di come Hazanavicius livelli il tutto nella sua dimensione di commedia sofisticata, con anche tocchi di musical, ma non dialoghi con l’immaginario di Godard, come del resto non aveva fatto nemmeno per il cinema muto. Può essere al limite interessante il discorso sul divismo, sulla società dello spettacolo, sui minuti estesi di popolarità di Andy Warhol, da cui non poteva sottrarsi suo malgrado nemmeno un contestatore come Godard. Ma il macchiettismo con cui si riduce il tutto nella parte italiana svilisce inevitabilmente il tutto. La parodia, anche quando vuole spingersi sulla dissacrazione – vedi la scena in cui Godard impegnato in un atto di sesso orale disquisisce sulla contestazione al Festival di Cannes del 1968 – risulta goffa e impacciata.
Vedere Le redoubtable è come fare la fila al cinema nella famosa scena di Io & Annie, laddove il molestatore che precede è proprio Michel Hazanavicius. Hazanavicius che si conferma come regista piacione e furbastro.
Giampiero Raganelli