Che cos’è la felicità?
È possibile, al giorno d’oggi, essere felici? In che modo si può far sì che tutte le brutture dei giorni in cui viviamo evitino di influenzare il nostro stato d’animo? E, soprattutto, cos’è, davvero, la felicità? Sono queste tutte le domande che Walter Veltroni – qui al suo terzo lavoro da regista – si pone in Indizi di felicità, documentario che tenta di trovare risposte in merito ma che (fortunatamente ed inevitabilmente) non arriva ad una soluzione unica.
Una serie di filmati di repertorio mostranti l’attentato alle Torri Gemelle, vittime di guerra, bambini gravemente feriti ed edifici crollati in seguito a forti terremoti stanno ad aprire questo ultimo lavoro di Veltroni. A seguire, una serie di interviste a persone con età e vissuti differenti che, in un modo o nell’altro, sono state segnate da forti traumi ma che, ognuna a modo proprio, sono riuscite a trovare la tanto agognata serenità. Al di là dell’impatto emotivo o dell’interesse che ogni singola intervista può avere, però, il vero problema di Indizi di felicità è ben altro.
In primo luogo abbiamo la scrittura in sé: troppo piatta, troppo lineare, fatta eccezione per l’incipit ed il finale (su cui torneremo a breve) l’andamento è sempre lo stesso per circa un’ora e quaranta, con qualche breve intermezzo musicale in cui ci vengono mostrati filmati, fotografie o qualsiasi altro elemento che stia ad anticiparci la storia successiva. Ed è proprio la musica, forse, il fattore che maggiormente disturba: al limite del patetico, risulta decisamente eccessiva e contribuisce a dare al tutto quel tono buonista ed ammiccante che fa, d’altronde, da leit motiv all’intero documentario e che proprio durante il finale – dove viene presa la non troppo indovinata decisione di mostrarci un gruppo di ballerini che danzano in coppia all’interno di un edificio abbandonato sulle note di “Singing in the rain” – trova il suo definitivo compimento.
Forse l’unico elemento interessante di Indizi di felicità sono davvero le singole interviste ai protagonisti. Ovviamente interessanti ed efficaci soprattutto se scevre da ogni qualsivoglia cornice, prese singolarmente, semplicemente. Quello sì. Ma, a volte, anche in questi casi vediamo una macchina da presa spesso un po’ troppo invadente, che non smette di registrare neanche quando chi viene intervistato sembra far fatica a parlare in quanto sopraffatto dal dolore che determinati ricordi stanno a risvegliare. Peccato che in casi come questi forse sarebbe meglio che il regista stesso cerchi di risultare il più possibile “invisibile”. Cosa non sempre facile da fare e che, purtroppo, qui non è stata fatta.
Eppure Veltroni stesso, con la sua opera prima – Quando c’era Berlinguer (2014) – non se l’era cavata tanto male. Che sia il voler trattare un tema di tale portata già di per sé a rischio di imbarazzanti scivoloni stilistici? Analogamente al documentario, non si cercherà a tutti i costi, in questa sede, una risposta in merito.
Marina Pavido