Anime inquiete
Sentimenti che si incrociano tra il sorriso e la violenza. Un padre e i suoi figli non amati, un fratello e una sorella in conflitto, una giovane coppia che sembra serena. E i bambini che vedono e non possono ribellarsi. La storia di due famiglie in una Napoli inedita, lontana dalle periferie, una città borghese dove il benessere può mutarsi in tragedia, anche se la speranza è a portata di mano.
In queste poche ma esplicative righe di sinossi sottratte al catalogo del Bif&st 2017, dove al film è toccato il compito di aprire l’ottava edizione nella sezione Anteprime Internazionali, si riassume alla perfezione tutto ciò che è racchiuso nell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Gianni Amelio, ossia La tenerezza che, dopo la vetrina alla kermesse barese lo scorso 22 aprile, approderà due giorni dopo nelle sale con 01 Distribution.
La nuova pellicola del regista calabrese, liberamente ispirata al romanzo di Lorenzo Morone dal titolo “La tentazione di essere felici” (che sottolinea ancora una volta il legame imprescindibile tra il cinema di Amelio e la letteratura), non raggiunge le vette di molte opere realizzate in passato, ma ha sicuramente molto da dire al pubblico e niente di assolutamente banale o superficiale, al contrario è un’opera piena e intrisa di significati e significanti.
Se c’è qualcosa che le si può rimproverare semmai è la continua interruzione del flusso emotivo, con lo spettatore di turno che si trova a misurarsi con una pellicola che non penetra quanto dovrebbe sotto la superficie, che non accarezza e non schiaffeggia quanto avrebbe dovuto il cuore e la mente di chi guarda. Cosa inconsueta e poco frequente nel cinema di Amelio, sempre attento alla veicolazione delle emozioni, ma soprattutto allo scambio empatico e catartico tra ciò che scorre sullo schermo e quello che arriva al pubblico. Sin dal fortunatissimo esordio del 1983 con Colpire al cuore, infatti, tale scambio fra mittente e destinatario è stato un carattere distintivo del suo cinema, con picchi davvero altissimi come Lamerica, Il ladro di bambini, Così ridevano o Le chiavi di casa. In tal senso, La tenerezza ha tutte le intenzioni di andare anch’esso in quella direzione, proprio per il suo essere un film che parla di sentimenti ed emozioni, di vita e di morte, di rapporti umani e legami affettivi tra genitori e figli, del bisogno di dare e ricevere amore, ma soprattutto di perdono e della ricerca di attimi di eterna felicità. Questo magma incandescente alimenta dall’interno il plot e le pagine dello script, ma c’è qualcosa che il più delle volte impedisce alle emozioni stesse di fluire. Quel qualcosa potrebbe essere la dilatazione dei tempi delle scene, che porta a una dilatazione dell’intensità; o ancora il volere fare confluire e coesistere a tutti i costi i tanti, a nostro avviso troppi, temi sollevati nel film. Forse un lavoro di sottrazione avrebbe giovato, puntando così su un numero inferiore di elementi, quanto basta per impedire un’eccessiva saturazione. Di conseguenza, si assiste a una cristallizzazione del flusso, che viene meno solo quando Amelio, la scrittura e l’interpretazione degli attori, spingono il piede sull’acceleratore, come nel caso dello scatto di ira di Fabio (Elio Germano) nei confronti del venditore ambulante oppure dei monologhi di Elena (Giovanna Mezzogiorno) e di Aurora (Greta Scacchi) in ospedale.
Ciononostante, La tenerezza è un’opera che sa parlare allo spettatore con la forza della parola stessa. Amelio, infatti, a differenza del passato punta meno sulla drammaturgia, asciugando la storia sino all’essenziale, affidandosi piuttosto alle dinamiche fisiche e orali tra i personaggi. In questo modo, sono i dialoghi, gli sguardi, i gesti e anche il non detto, a comporre pezzo per pezzo il racconto. Il baricentro dove tutto confluisce diventa il personaggio interpretato da un Renato Carpentieri in stato di grazia, che dopo averlo ammirato nei panni dell’egoista e brusco Lorenzo, fa aumentare ancora di più il rimpianto per averlo visto pochissimo sul grande schermo. E questo è un mea culpa che dovrebbe farsi il cinema nostrano e i suoi addetti ai lavori. Ultimamente per fortuna il trend sembra essere cambiato e le apparizioni stanno crescendo di numero (Il giovane favoloso di Mario Martone, Babylon Sisters di Gigi Roccati e La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu), ma ci chiediamo comunque il perché di un uso così con il contagocce in passato. L’attore irpino da corpo e voce a un personaggio molto complesso, un uomo che in anni lontani è stato un famoso avvocato. Ora, dopo qualche infortunio professionale, è caduto in disgrazia, per colpa di un carattere bizzarro, che lo porta più all’imbroglio che al rispetto della legge. Anche nei rapporti familiari Lorenzo frana ogni giorno, negando apparentemente senza ragione, l’affetto ai suoi figli. Saverio, il più giovane, se ne infischia: sta investendo in un locale dove si fa musica, e ha solo fame di soldi. Elena invece gli vuole bene e ne soffre. Ormai padre e figlia non si parlano nemmeno, qualcosa li divide, un fatto oscuro legato alla morte della moglie, che Lorenzo, come lui stesso ammette, non amava e tradiva senza scrupolo.
È lui il vero e grande protagonista del film, capace di caricarsi sulle spalle tutto ciò che c’è da caricarsi e questo Amelio lo sapeva sin dall’inizio. Per cui aveva bisogno nei passaggi più delicati e scivolosi della timeline di un attore in grado di tenere a galla il tutto. Carpentieri si è rivelato fondamentale, trasformandosi nell’uomo giusto al momento giusto.
Francesco Del Grosso