Lotta di classe sospesa nel tempo
A Torrematta, ameno territorio salentino, il tempo si è fermato. Per essere il più possibile esplicito, il duo registico composto da Davide Barletti e Lorenzo Conte, ne La guerra dei cafoni inseriscono un prologo medioevale (con partecipazione straordinaria di Claudio Santamaria) che riassume una situazione a dir poco stagnante: il ricco possidente comanda con poteri di vita e morte, il povero serba rancore. Il lungometraggio diretto da Barletti e Conte – autori del notevole Fine pena mai (2008) con protagonista proprio Santamaria e potendo contare su un rimarchevole curriculum di documentaristi – possiede molti meriti. Il primo è quello di aver perfettamente centrato la descrizione di un’Italia atavica, per l’appunto cristallizzata in un tempo indefinibile dove l’eredità di una lotta di classe senza fine ha lasciato il segno su adolescenti privi di un’illuminata guida adulta. Per questo, ogni estate rappresenta l’occasione di rinvigorire una “guerra” tra i figli dei residenti, contadini e pescatori, definiti “cafoni” e prole della borghesia perlopiù in vacanza, i cosiddetti “signori”. C’entrano le ragazze, il presunto dominio sul territorio, ma solo come pretesto. In ballo c’è qualcosa che scorre, davvero, nel sangue di ognuno di loro.
Secondo merito della coppia di registi e sceneggiatori, quello di aver girato un film completamente ad altezza giovanile. Il punto di vista dell’immaturità si fa, ne La guerra dei cafoni, epica minimalista e persino poesia spicciola, grazie anche, oltre all’apporto di un cast fresco e credibile, al decisivo contributo delle magnifiche locations pugliesi, immortalate al meglio per creare una sorta di prospettiva magica capace di fare da suggestivo filtro al racconto. Gli adulti invece, semplicemente, non ci sono. E quando compaiono sono figure neutre e insignificanti, oppure folgoranti visioni che preannunciano qualcosa di tragico, come nel caso dell’apparizione sul finale – con relativo, sferzante, monologo – del santo patrono dei cafoni a Francisco Marinho, giovane leader dei “signori”. Una lotta senza quartiere che, con l’avvento di Cugginu, parente di Scaleno, a sua volta capo dei “cafoni”, si capisce subito degenererà nel nome di qualcosa di incontrollabile, quasi esigendo la morte di uno dei ragazzi per placare quell’odio tanto inesauribile quanto immotivato. Una situazione estrema che ricorda molto da vicino quella narrata da William Golding nel celeberrimo romanzo “Il signore delle mosche” – poi, una prima volta, magnificamente trasposto sul grande schermo dal grande Peter Brook nel 1963 – acutissima ricognizione sul radicamento della violenza nel dna umano sin dai primi respiri infantili. E oltre.
Non manca, nel complesso de La guerra dei cafoni, qualche pausa narrativa causata da un non sempre felicemente raggiunto equilibrio drammaturgico. Piccoli, trascurabili, nei. Perché il film è da consigliare caldamente come opera dal chiaro sottotesto socio-politico nonché prototipo esemplare del racconto di (non) formazione in un Meridione d’Italia che pare terra abbandonata da tutto e tutti. Eccezion fatta per quei ragazzi che trovano, nella loro focalizzazione sugli istinti primari, una delle poche ragioni per sopravvivere. In un contesto drammatico dal quale solo i più fortunati riescono ad uscire. Ed infatti, quasi ad aprirsi per certi versi alla speranza dopo la tragedia catartica dell’epilogo, la macchina da presa di Barletti e Conte inquadra il piccolo Tonino, quasi la mascotte del gruppo dei “cafoni”, al pari di un essere umano diventato, d’improvviso, grande. Troppo e troppo presto, per un cinema decisamente pedagogico nella sua chiave di lettura più profonda. E che merita di essere visto da quanto più pubblico possibile, dopo il passaggio all’International Film Festival di Rotterdam 2017 e quello all’edizione, contemporanea all’uscita in sala, dell’ottava edizione del Bif&st barese.
Daniele De Angelis