La rivincita dei bravi ragazzi
Alzi la mano chi, accompagnato dalle note di una radio un po’ nostalgica, non si è trovato almeno una volta a canticchiare un classico come Gold. O a usare True come sottofondo musicale di qualche romantica reminiscenza. O ancora, a scatenarsi sulle note di Instinction.
Chiunque si sia sentito coinvolto da questo piccolo sondaggio, non può che apprezzare Soul Boys of The Western World, il primo lungometraggio di George Hencken, un documentario sulla vita del gruppo che ha segnato la storia del decennio più amato e criticato di tutti i tempi.
Cinque ragazzi, un sogno nel cassetto e quella dose di spensieratezza tipica degli anni in cui sono cresciuti, quando tutto sembrava possibile e qualsiasi cosa si decidesse di fare aveva come unico fine quello di divertirsi.
Questa l’euforica atmosfera in cui nascono gli Spandau Ballet, un gruppo che la storia ha semplicemente usato per dar voce a delle note che già riecheggiavano nell’aria e si manifestavano attraverso la cultura, l’arte, la società e i consumi.
Pionieri di un genere che ha voluto seppellire la rabbia del punk e mettere momentaneamente a tacere le velleità sovversive del rock, i cinque intrepidi si son ritrovati a rivestire i panni delle star quasi per caso. E questo la Hencken ce lo racconta molto bene, mostrando le umili origini dei protagonisti in una prima parte che fatica un po’ a decollare: l’ortodossa regista ha voluto, infatti, utilizzare solo ed esclusivamente i materiali originali che aveva a disposizione, e la probabile scarsità di informazioni riguardanti l’era precedente il boom del gruppo, non ha giocato a suo favore.
Dopo un inizio un po’ ostico, che non aiuta certo a immergersi nelle atmosfere londinesi di fine anni settanta, il documentario comincia a prendere quota man mano che ci si avvicina al trionfo della band: il coinvolgimento nei confronti dell’opera sembra andare di pari passo con l’affermazione del gruppo. Dopo i primi attimi di scetticismo, ci troviamo, dunque, lì, nelle arene degli stadi più grandi del mondo a saltellare al ritmo di quelle piacevoli note e urlare i nomi dei loro autori.
Con un montaggio quasi impeccabile, il documentario riesce a raccontare i successi della band anche a chi non li ha vissuti in prima persona. L’alternarsi di voci, volti e filmati crea un filo conduttore tramite cui si ricostruisce in ogni tappa la storia del gruppo, che va di pari passo con la storia della società, che la regista, proprio per questo, non vuole tralasciare.
Il rischio di frammentarietà è ampiamente superato da un lavoro quasi certosino nella ricerca di ogni pezzo e della sua giusta collocazione. Come se avesse delineato un grande puzzle, la Hencken è così riuscita a mostrarci chi sono stati gli Spandau Ballet, acerrimi rivali dei Duran Duran – ma solo in pubblico – e artefici di uno stile innovativo che sposa appieno le sonorità del POP anni 80 con alcune contaminazioni derivanti dal soul.
Un film non solo per nostalgici, ma per chiunque voglia farsi raccontare un pezzo di storia, anche per provare a comprendere cosa si celasse dietro quell’apparente euforia.
Costanza Ognibeni