Russia e America a confronto in un road movie sentimentale
Nell’ambito della retrospettiva dedicata ad uno dei più grandi cineasti russi contemporanei, Karen Šachnazarov, presidente anche del colosso dell’industria cinematografica russa, la Mosfilm, è stato proiettato pure La figlia americana (Amerikanskaya doch, del 1995), singolare e surreale commedia sentimentale russa ambientata negli Stati Uniti d’America.
Rispetto agli altri film presentati alla rassegna, La figlia americana è quello che più direttamente pone a confronto la società americana con quella russa post Urss, con chiari accenni alla crisi successiva alla perestrojka ed alle sue conseguenze, prima tra tutte la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti, avvenute entrambe nel dicembre 1991. Lo stesso protagonista Alexei, interpretato da un bravo Vladimir Mashkov, viene in un certo senso identificato con la Csi nata dall’Accordo di Belaveža e la stessa crisi russa.
La storia si presenta semplice: dalla Russia arriva in America Alexei, un uomo solo, abbandonato anni prima dalla moglie Olga, fuggita con il ricco americano David portando con sé la loro figlia di 4 anni, pronto a riportare la piccola Anna a casa nella madrepatria Russia. Al rifiuto di Olga, la bimba decide di scappare con il padre, attraversando l’America e trasformando il film in un inedito, divertente e commovente al tempo stesso, road movie dal sapore russo alla ricerca della libertà.
Come sempre accade nei film di Šachnazarov, seppur in chiave più leggera, anche La figlia americana presenta diverse chiavi di lettura. Maria Shukshina interpreta Olga, una donna fortemente pragmatica: lascia il marito e scappa con la figlia da un paese in crisi, all’alba della dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e della nascita della Comunità degli Stati Indipendenti, per dare alla bambina la sicurezza economica che il ricco David può dare ad entrambe. Una sottile critica al capitalismo americano che emerge con forza nell’atteggiamento del nuovo marito, che crede di poter comprare tutto, compreso l’affetto di una bambina e la bimba stessa dal padre. Laddove i soldi sono la cosa più importante, Alexei, nonostante la difficoltà di parlare due lingue diverse, mostrerà alla figlia e agli spettatori che sono gli affetti e la famiglia ad occupare il primo posto.
Contrapposta ai pragmatici Olga e David, ma vicina ai fuggitivi Alexei ed Anna, troviamo l’umanità del popolo americano, quello meno abbiente, dalla proprietaria del bar che li accoglie e li fa sentire quasi a casa, nel breve intermezzo musicale in cui Alexei canta e suona la chitarra, al camionista e al poliziotto che li aiuteranno nel loro viaggio verso la madre patria Russia. A proposito della Polizia, il regista fa una indiretta critica alla corruzione della Polizia russa, contrapposta all’integrità di quella americana, onesta ma dal cuore d’oro: consegnati alle forze dell’ordine da un tipico rappresentante della middle class, Alexei cercherà invano di corrompere il poliziotto responsabile della stazione; ma di fronte all’evidenza dell’affetto tra padre e figlia ed alla consapevolezza che non si tratta di rapimento di minore ma piuttosto di fuga complice, lo stesso li lascerà intenzionalmente fuggire.
La loro fuga dovrà interrompersi per l’improvvisa febbre di Anna; ancora una volta, il russo sentimentale è pronto a pagare in prima persona per amore della figlia. Imprigionato, sono ancora Olga e David a cercare di comprare la sua rinuncia alla figlia; ancora una volta, Alexei rifiuta, a costo di rimanere in carcere per anni. Ma anni non saranno; Šachnazarov, infatti, non fa mancare il surreale lieto fine: la fuga di Alexei (e del suo nuovo amico detenuto di colore) a bordo dell’elicottero di David guidato dalla figlia Anna. Sorprendente, a tal proposito, l’interpretazione della piccola americana Alison Whitbeck ed il suo afflato con il papà sullo schermo, che danno al film quel tocco in più che lo rende degno di nota.
Una menzione a parte merita infine l’adattamento per la visione: oltre ai sottotitoli italiani, spicca il singolare doppiaggio russo delle parti parlate in inglese; lontano anni luce dal doppiaggio italiano, quello russo, in stile speaker radiofonico, lascia in un primo momento interdetti, ma ha il pregio di mostrare il differente modo di fare cinema nel mondo sovietico.
Michela Aloisi