Vicolo cieco
Non ci vuole molta immaginazione ad ipotizzare i motivi del flop al botteghino statunitense di Nightmare Alley, da noi ribattezzato La fiera delle illusioni. Se alla nefasta pandemia – evento che di suo ha contribuito ad allontanare il pubblico dalle sale – Guillermo del Toro, regista del film, si “premura” di sbattere in faccia al pubblico un noir stilizzato in cui la grettezza umana viene sviscerata da ogni possibile angolazione, ecco che il rifiuto appare quasi scontato, alla stregua di un qualsiasi riflesso pavloviano. Comprensibilmente, una volta compiuto il gesto eroico di recarsi al cinema, la gente pretende distrazione dalle preoccupazioni quotidiane, non certo una specie di promemoria su quanto possa essere corrotta la propria natura. Un vero peccato, perché con La fiera delle illusioni – tratto da un romanzo di William Lindsay Gresham già portato sullo schermo con lo stesso titolo nel 1947 dal regista Edmund Goulding – del Toro spiazza per molti versi anche il suo pubblico di riferimento, accompagnandolo nei territori cristallini del racconto morale, sia pure imbevuto dell’altissimo tasso di cinefilia che tutti, anche i più acerrimi detrattori, gli riconoscono.
Un noir purissimo, dunque. Che scava alla radice del genere come solo pochi altri autori, autentici amanti del cinema, saprebbero fare. Ammirando l’estetica de La fiera delle illusioni vengono in mente i fratelli Coen, sia pure parzialmente epurati della loro feroce e beffarda ironia. Nel caso di questo suo ultimo lavoro del Toro riesce nell’impresa di abbinare i preziosismi estetici che ne hanno sempre contraddistinto il modus operandi con una spietatezza poco consona ad un regista che spesso ha filtrato gli orrori del mondo attraverso la purezza di uno sguardo infantile, come avveniva ad esempio negli straordinari La spina del diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006). Ne La fiera delle illusioni spicca invece l’assenza pressoché totale di “pietas”: persino i cosiddetti diversi, presenti nell’attività circense che fa da teatro alla prima parte del lungometraggio, non godono di particolare benevolenza; quasi tutti, anzi, finiscono in un metaforico girone infernale, preda della più imperdonabile avidità. A cominciare dal personaggio principale, Stanton Carlisle (Bradley Cooper), classico avventuriero in cerca di fortuna, nella profonda depressione degli anni quaranta americani, da perseguire con ogni mezzo possibile. Tipico antieroe del noir, verrebbe da definirlo; ovviamente contornato da una serie di personaggi sinistri, a partire da una dark lady da manuale, la psichiatra Lilith Ritter, impersonata dalla magnetica Cate Blanchett. Invece quella che a prima vista potrebbe apparire “soltanto” come una minuziosa operazione estremamente filologica ed omaggiante il cinema che fu, dissimula pulsioni molto contemporanee. Poiché ogni personaggio nasconde qualcosa, un doppio volto la cui negatività viene scrutata quando ormai è troppo tardi per rimediare a situazioni compromesse. Ed infatti La fiera delle illusioni è simile ad un vortice implacabile, che risucchia e non risparmia nessuno. Ed è proprio tale pessimismo privo di speranza a cancellare ogni sospetto di formalismo, che in alcune opere firmate dal regista messicano tipo Crimson Peak (2015) poteva farsi largo con qualche ragione. La sublime bellezza di ogni sequenza, nella fattispecie, non solo rapisce lo sguardo ma crea genuina angoscia. Facendo emergere il lato più veritiero – e quindi spaventoso – di ogni essere umano il cui scopo va oltre il normale istinto di sopravvivenza. Un quadro nobilitato dalla presenza di attrici e attori in splendida forma e completamente in parte (tra gli altri meritano una citazione Willem Defoe, Toni Collette, Rooney Mara, Richard Jenkins e David Strathairn), con la sola eccezione di un Bradley Cooper un po’ a disagio quando si tratta di recitare entro le righe e donare di sfumature il proprio personaggio. Anche se gli va riconosciuta una presenza scenica non di poco conto, da autentico divo del cinema “old style”. Fattore, quest’ultimo, che legittima la sua presenza nel cast.
C’è dunque da sperare che il probabile insuccesso economico globale de La fiera delle illusioni non tarpi le ali a Guillermo del Toro, il quale si conferma autore in continua evoluzione e per nulla impigrito dalla messe di premi raccolte grazie a La forma dell’acqua – The Shape of Water (2017). L’amore per il rischio (cinefilo) ce lo rende ancora più simpatico di quanto già non sia effettivamente…
Daniele De Angelis