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Bosnia Express

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VOTO: 8

Rapsodia balcanica

La memoria del conflitto che negli anni ’90 ha insanguinato la Bosnia, con tutti gli antecedenti storici, antropologici e politico-religiosi atti a spiegarne in qualche modo l’origine, è un mosaico in perpetuo divenire. Ogni tessera che si aggiunge amplia le prospettive, modifica la percezione di fondo, rende mestamente omaggio alle vittime, senza però mai dissipare per intero quella foschia che sembra avvolgere tutto e tutti (memorabili, in tal senso, le sequenze finali de Lo sguardo di Ulisse, il capolavoro di Theo Angelopoulos), nel segno di orrori così profondi da renderne difficile l’archiviazione e finanche la rappresentazione. Tuttavia in questi ultimi decenni il cinema, sia documentario che di finzione, ci ha provato più volte ad esprimere sullo schermo tale vertigine, avvicinandosi talora con encomiabile abnegazione allo scopo prefisso. A riguardo sono diversi i cineasti italiani che si sono positivamente distinti. Viene subito in mente il Gaglianone del fluviale documentario Rata nece biti (La guerra non ci sarà). Significative anche le sporadiche incursioni di Davide Ferrario nell’immaginario bosniaco post-bellico. All’elenco dei giusti va sicuramente aggiunto Massimo D’orzi, regista di quel Bosnia Express presentato nel corso del 33° Trieste Film Festival e di ormai prossima distribuzione nelle sale italiane.

Il percorso autoriale di Massimo D’orzi l’abbiamo seguito (e apprezzato) sin dalle prime opere: Adisa o la Storia dei Mille Anni (2004) e Sàmara (2009), in particolare, sono visioni che ci hanno (in)segnato molto. Riprendendo, a distanza di anni, la direttrice balcanica di Adisa, D’orzi si è imbarcato in un progetto che ha avuto pure Trieste (nel cui festival incentrato sulle cinematografie dell’Europa Orientale è avvenuto anche, giustamente, il nostro incontro col film) tra i propri epicentri, secondo un percorso senz’altro impegnativo che oltre al tempo deve aver assorbito parecchi dilemmi etici e tensioni di natura emotiva. Nei contorni sfuggenti di un documentario “sui generis”, abbiamo comunque ritrovato quel lirismo umbratile e quella capacità di trasfigurare le contraddizioni del presente, che avevamo già avuto modo di elogiare in precedenti occasioni.
Ispirato liberamente al libro “Bosnia Express”, scritto da Luca Leone e pubblicato da Infinito Edizioni, il film di Massimo D’orzi ne rielabora in modo personale le suggestioni, ponendosi alla ricerca più di nuovi interrogativi che di soluzioni nette. Al pari dell’orrore lancinante di certi ricordi, i sentieri sembrerebbero essere quelli esplorati altre volte: le truci abitudini degli assedianti durante il prolungato martirio di Sarajevo, le donne vittime prestabilite di strupri etnici e e altre ignobili rappresaglie, il ruolo delle grandi religioni monoteiste nel fornire carburante all’odio tra popoli che erano stati uniti, il senso di smarrimento collettivo al frammentarsi della vecchia Jugoslavia.
Nel caleidoscopio di immagini e di racconti che costituisce Bosnia Express non si scorgono però banali intenti divulgativi, facili risposte, tesi da affermare perentoriamente. Che l’obiettivo si adagi sul noto e agghiacciante passato di Monsignor Stepinac (per inciso, sempre accorto l’utilizzo dei materiali di repertorio) o sposi piuttosto il presente di qualche splendida artista, come Nikolina Vukvic, il racconto si muove inquieto a caccia di sensazioni, frammenti di vita, stranianti e magnetiche presenze. Ogni inquadratura pullula così di possibili rivelazioni, di dettagli che calamitano lo sguardo, di ritmiche interne che trascendono, senza negarla, la densità materica dei paesaggi, dei corpi e degli stessi volti catturati dal regista. Tutto ciò durante quella rapsodica peregrinazione che va di continuo dal passato al presente, collezionando ritratti in luoghi emblematici come per l’appunto Sarajevo, Tuzla, Srebrenica, Medjugorje, ed infine Mostar: ancora una vertiginosa prospettiva di quel ponte, potenziale emblema di distruzione e rinascita, col quale avevamo familiarizzato grazie a un altro eccellente lavoro cinematografico visto a Trieste, I tuffatori di Daniele Babbo.

Stefano Coccia

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