Il morbo infuria
Napoli, oggi. O forse appena ieri. Oppure una distopia futuribile tutta italiana. Un virus misterioso colpisce la popolazione, portando spesso alla morte. La città entra in lockdown. Nessuno può entrare né tantomeno uscire. Si cerca disperatamente un rimedio a questa implacabile malattia, che pare un’influenza ma è molto più infida e letale.
Una realtà paragonabile al peggiore degli incubi, che tutti noi abbiamo già vissuto. E che potrebbe ripresentarsi ancora, in modi ancora più virulenti. Francesco Patierno prende il celeberrimo romanzo di Albert Camus “La peste”, ne trasferisce l’azione nella sua Napoli e plasma i personaggi de La cura (questo il titolo del film, presentato nel concorso Progressive Cinema alla Festa del Cinema di Roma 2022) quasi fossero protagonisti di una tragedia greca maledettamente attuale. Secondo stilemi che molto ricordano la sua opera d’esordio, quel Pater Familias (2003) intriso di vendette ed odi irreversibili.
Un gruppo di persone in lotta contro un nemico invisibile. Ma anche ad affrontare le proprie debolezze, i propri demoni personali. In primo luogo un senso di solitudine che attanaglia tutti, inesorabilmente acuito dalla visione di una Napoli deserta, segnata dal lockdown. Patierno “gioca in casa” e riesce in scioltezza a catturare l’effetto contro natura di una città altrimenti pulsante di vita, rendendolo una figura aggiunta al dramma che si va consumando. Agli affetti che si allontanano, nel peggiore dei casi per sempre, per motivi di forza maggiore impossibile da spiegare razionalmente.
La cura – nonostante metta molta carne al fuoco, forse persino troppa, come la falsa pista del metacinema scaturita dall’incipit del lungometraggio – è in fondo una storia di resistenza umana. Ancorarsi alla scienza ed alla logica per non cadere vittima di superstizioni religiosi o laiche, con le prime ad additare la collera divina come responsabile del dramma e le seconde a minimizzare la portata della calamità fino a quando non tocca personalmente l’apparato burocratico. Patierno ha il merito di realizzare un film anti-genere senza ricorrere ad alcun tipo di stereotipo presente in grosse produzioni inclini al catastrofismo. Al regista e cosceneggiatore va anche riconosciuta l’intuizione di affidarsi alla bellezza maestosa di Napoli e ai napoletani, in primis un gigantesco Peppe Lanzetta nel ruolo di Padre Paneloux – i personaggi mantengono i nomi francesi del testo – a lanciare strali contro peccati e peccatori; mentre l’ottimo Antonino Iuorio è Grand, massiccio infermiere che non teme di mostrare le debolezze che lo affliggono, ben oltre la malattia che contrae nel corso del film. Un’opera che si apre con la simbolica immersione sotto le acque del Golfo del dottor Bernard (un intenso Francesco Di Leva, anche cosceneggiatore) per chiudersi, in un finale catartico che forse pecca di ottimismo, con la sua emersione dalle acque inospitali di un inverno metaforico che, dal punto di vista diegetico dell’opera, pare non finire mai. Se non fosse, appunto, che La cura racconti anche di una forza di volontà che emerge anche e soprattutto quando la situazione sembrerebbe perduta, fornendo alle cose una prospettiva differente che permette di inquadrare nella giusta dimensione il problema per poi trovarne l’adeguata soluzione.
Un lungometraggio dunque imperfetto quanto si vuole nella sua frammentarietà, ma che possiede un’identità ed un anima ben definite. Perfettamente sovrapponibili ad una città che Patierno regala nella sua versione meno turistica e perciò omologata, offrendone un ritratto capace di sedimentarsi nella memoria spettatoriale al pari di certi monologhi attoriali molto ben scritti ed altrettanto ottimamente recitati, anche da un Alessandro Preziosi in coraggioso tentativo di affrancamento dal cinema “leggero”.
Daniele De Angelis