La carpa e le memorie
Tra i vari titoli in concorso all’On the road festival, che si svolge in questi giorni al cineclub Detour di Roma, il documentario Koi di Lorenzo Squarcia colpisce per il tocco poetico e lieve come un volo di farfalla con cui il regista si approccia ad uno degli episodi più devastanti della recente storia del Giappone, lo tsunami del 2011.
Nato come progetto di tesi sul disastro nucleare di Fukushima, la lente si è poi spostata sullo tsunami, concentrandosi in particolare su due diverse storie che intrecciano le due realtà della calamità naturale: terra e acqua, terremoto e tsunami. Da alcuni articoli su importanti giornali esteri, Squarcia è venuto a conoscenza del gruppo di volontari motociclisti Support the Underground, guidato da Tomohiro Narita, e della toccante storia di Yasuo Takamatsu, che rappresenta il volto umano della tragedia; dall’incontro (virtuale) tra le due facce di una stessa medaglia è nata l’avventura di Koi (la carpa koi, che risale la cascata e diventa drago, è simbolo di tenacia e coraggio; e le immagini delle carpe che nuotano placide, sapientemente dosate, donano al documentario un’eleganza ed una poeticità molto nipponica).
Da un personale ricordo di un viaggio in Giappone prima che il mondo cambiasse, ho potuto constatare l’importanza per il popolo, per la gente comune, della memoria; non solo il tramandare le tradizioni, ma anche tenere vivo il ricordo di ciò che è stato, non soltanto attraverso musei o monumenti ma anche nel raccontare e mostrare il passato alle giovani generazioni. Ecco allora che dello tsunami che ha colpito la costa settentrionale del Paese del Sol Levante (con epicentro nella regione di Tohoku) si conservano le memorie e gli oggetti ritrovati delle vittime, perfettamente catalogati laddove possibile; molti dei resti dei dispersi sono stati ritrovati proprio dal gruppo di volontari fondato dal biker Narita, che ancora oggi continua il suo lavoro di ricerca.
Al motociclista tatuato, proprietario dell’officina Phantom Gate a Tokyo ma originario della zona colpita dallo tsunami, simbolo di un Giappone emarginato (dove i tatuaggi vengono sempre accostati alla malavita, la Yakuza), si contrappone la toccante storia dell’autista di autobus (ex militare) Yasuo Takamatsu, che nella tragedia ha perduto a Onagawa l’amata moglie, spazzata via dal tetto della banca dove lavorava (insieme ad altri 12 dipendenti); per ritrovare i suoi resti, ha imparato l’arte del sub e ancora oggi continua ad immergersi in una ricerca senza fine. A sua moglie, Yuko Takamatsu, il musicista Guinet ha dedicato un brano per pianoforte, le cui delicate note esprimono ad un tempo commozione e speranza. La contrapposizione tra le due anime principali del disastro e del film viene resa anche registicamente: un’immagine ferma, da cavalletto, per il pacato Yasuo e la sua consolidata routine tra autobus e immersioni, camera a spalla invece per l’esuberante Narita, sempre in viaggio tra officina e concerti con la sua band.
Ma Koi è un mosaico di storie e personaggi; nel loro viaggio, regista ed operatori hanno incontrato bikers, tatuatori, musicisti del gruppo di volontari Supporter the Underground, le cui storie descrivono un’anima quasi sommersa nel tradizionale, ordinato, Giappone; ed al contempo hanno scoperto l’umanità dietro la tragedia nei racconti di chi è rimasto, dalla madre che ha dedicato una stanza ai ricordi del figlio 25enne, collega di Yuko, scomparso anch’egli sul tetto della banca, al padre che si reca quasi ogni giorno nel cortile della scuola di Okawa, dove han trovato la morte 74 bambini e 10 insegnanti, all’uomo che ha visto la propria casa trascinata via ed ora proprio lì accanto gestisce un cottage. Nel raccontare le loro storie, emerge un moto di ribellione inusuale nella società giapponese, quello appunto del papà di una delle bambine della scuola di Okawa e dei parenti degli impiegati dispersi della banca; bambini ed impiegati che avrebbero forse potuto salvarsi, se anziché seguire regole ferree che li hanno bloccati in un cortile o su un tetto fossero semplicemente fuggiti in collina.
La bellezza di Koi è nel saper intrecciare le storie descrivendo la tragedia nelle piccole cose; al crudo documentario che mostra l’accaduto si accostano momenti poetici in cui il sentimento ha il sopravvento, dalle testimonianze dei sopravvissuti ai resti dei dispersi, dalla musica di Guinet ai filmini di famiglia di casa Takamatsu, in cui Yasuo cerca Yuko e lei non si vuol far trovare, che richiama drammaticamente il loro presente. A far da cornice, la tenace carpa Koi, simbolo da un lato della perseveranza dei volontari e della loro ricerca e dall’altro del coraggio di chi oggi è andato avanti, pur convivendo giorno dopo giorno con un immenso dolore.
Michela Aloisi