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Un Re allo sbando

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VOTO: 8

Sua Maestà il Re          

Il potere, le istituzioni, i numerosi impegni ufficiali e la necessità di tenere unita una nazione. Ma non una nazione qualunque, bensì il centro dell’Europa stessa. Roba non facile da affrontare, per un comune mortale. Eppure c’è chi nasce per restare mediocre e chi nasce per diventare re, afferma – all’inizio del film – Duncan Lloyd, coraggioso ed attento documentarista, tra i protagonisti di Un Re allo sbando (titolo originale King of the Belgians), ultima fatica dei registi Peter Brosens e Jessica Woodworth in concorso nella sezione Orizzonti alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Nicolas III è il re del Belgio. Attorniato da una squadra efficiente e collaudata, appare piuttosto spiazzato nel momento in cui deve prendere decisioni autonome. Eppure accade che – durante una visita ufficiale ad Istanbul – arriva la notizia che la Vallonia ha dichiarato la propria indipendenza. La situazione sembra sfuggire di mano: il popolo ha bisogno del proprio re, ma tutti i collegamenti aerei con il Belgio sono stati cancellati. Che fare? L’unica soluzione sembra essere quella di spostarsi, in incognito, via terra. E così sua Maestà, insieme a tutta la squadra, parte per un lungo e, a tratti, surreale viaggio attraverso Ungheria, Bulgaria, Serbia ed Albania.
La coppia Brosens – Woodworth è ormai quasi una veterana del Lido, dove già nel 2012 aveva presentato nel concorso ufficiale il raffinato quanto poco considerato La quinta stagione. Con questo ultimo lavoro, però, viene abbandonato il tono drammatico e quasi profetico dei loro precedenti lungometraggi e viene abbracciato, invece, il genere comico surreal-grottesco. Pur denunciando sempre un certo malessere della società che qui è dovuto, nello specifico, all’incomunicabilità tra il potere ed il popolo stesso. Il risultato è una commedia di tutto rispetto, ben scritta e ben girata, un originale road movie che, più che un romanzo di formazione, viene presentato come un percorso verso la conoscenza di sé stessi e di chi ci sta intorno. La figura di Nicolas III appare inizialmente come un pesce fuor d’acqua, quasi una sorta di macchietta, se lo si immagina a capo di una nazione. Eppure, man mano che la narrazione va avanti, dimostra di essere molto più capace e molto più umano di quanto inizialmente possa sembrare, in grado di affrontare qualsiasi imprevisto e di adattarsi ai contesti più assurdi (camuffandosi, ad esempio, da danzatrice o ubriacandosi con un ex cecchino). Le numerose gag qui presenti, però, malgrado l’argomento “spinoso”, non risultano mai eccessive e mai azzardatamente irriverenti, ma, in piena tradizione nordeuropea, giocano con ambiguità e paradossi in modo estremamente sottile e raffinato. Cosa non da poco, visto che – fino a prova contraria – far ridere è, spesso e volentieri, molto più difficile che far piangere. E tutto questo, ovviamente, sta solo a confermare il talento della coppia di cineasti.
King of the Belgians, però, si “stacca” dalle precedenti produzioni dei registi anche per il fatto che, qui – fatta eccezione per la fotografia che tende a mantenere colori freddi (in piena tradizione nordeuropea) –  quella estetica pulita ed estremamente rigorosa che, fino ad ora, ha fatto quasi da marchio di fabbrica della loro cinematografia, viene abbandonata, pur presentando scelte registiche perfettamente in linea con ciò che si sta raccontando. Tutta la vicenda ci viene mostrata attraverso la telecamera di Duncan Lloyd, appunto, che ha il compito di girare un documentario ufficiale sul sovrano del Belgio. Fregandosene delle regole, però, Lloyd “ruba” molti momenti privati tenendo accesa costantemente la sua telecamera, fino a rivelare a tutti le sue vere intenzioni. Le riprese “ufficiali” – riguardanti alcune scene iniziali – sono statiche, fredde, impersonali, effettuate rigorosamente a camera fissa, mentre per quelle ufficiose ci troviamo di fronte ad inquadrature sghembe con i personaggi sovente seminascosti. Questi due stili estremi, però, tendono, nel corso del lungometraggio, ad amalgamarsi sempre di più, rispecchiando appieno il graduale cambiamento di ogni singolo personaggio e del suo rapportarsi agli altri compagni di viaggio. Vi sono mille modi per puntare una macchina da presa, ma, in realtà, ce n’è uno solo, diceva il maestro Ernst Lubitsch. Ed in questo loro ultimo lavoro, Brosens e Woodworth sembrano proprio aver trovato quello giusto.
Ultima considerazione: l’importante colonna sonora che vede – all’interno del proprio repertorio – Grieg, Ravel, Vivaldi e Beethoven, inoltre, risulta particolarmente azzeccata. Un tocco di classe in più che conferisce al tutto un tono maestoso e leggero allo stesso tempo.
Per la maestria dimostrata ancora una volta dalla fortunata coppia di registi e per la sua ottima confezione, King of the Belgians risulta, dunque, uno dei prodotti più interessanti del Lido. Un film che, si spera, possa trovare anche in futuro la visibilità che merita.

Marina Pavido

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