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Intervista a Jessica Woodworth

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Conversando con una regista che si e ci interroga

La regista americana e Peter Brosens hanno iniziato il loro percorso da documentaristi, ma il riconoscimento di critica è arrivato, in particolare, con La quinta stagione presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2012.
Dal 9 febbraio è nelle nostre sale con Officine Ubu l’ultimo loro lavoro, Un Re allo sbando, presentato all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella Sezione Orizzonti.
Abbiamo avuto modo di incontrare la regista, che si è dimostrata molto disponibile e appassionata nel raccontare il suo lavoro, sviscerando aspetti e sotto-testi di un’opera che con ironia e pennellate di grottesco parla di noi e dell’Europa.

D: È particolare e suggestivo che l’idea per questo film vi fosse venuta pensando all’eruzione del vulcano islandese. Può raccontarci di più della gestazione del film?
Jessica Woodworth: Tante persone sono rimaste bloccate in diversi paesi, noi eravamo in casa, ma sul New York Times abbiamo letto un articolo sul presidente dell’Estonia impossibilitato a muoversi da Istanbul e così, col suo team, ha acquistato un mini-bus attraversando i Balcani senza protocollo. Erano allegate alcune foto del presidente presso la stazione di benzina e tutto ciò ci ha affascinato, trasmettendoci una nostalgia di un’epoca che non esiste più quando la gente doveva attraversare i paesi, le città. Ci è venuto spontaneo chiederci fino a che punto siamo dipendenti dell’aereo per varcare il tempo e lo spazio, ma quando non c’è questa possibilità, tempo e spazio devono essere vissuti diversamente, in modo più umano.
Nel nostro caso, il personaggio di un re un po’ tragico naif, ‘perduto’, bloccato, appunto, a Istanbul che è certo la periferia dell’Europa, ma anche molto potente a livello simbolico, realmente c’è un ponte tra Europa e Asia.

D: L’immagine del re in una barca, che potremmo definire di fortuna, è molto significativa…
Jessica Woodworth: Il livello simbolico e di metafora viene da se stessi, non sono coscienti nel momento in cui stiliamo la sceneggiatura e creiamo. Quasi tutte le scene del film si prestano a letture simboliche, ma tutto ciò è venuto naturalmente, non è stato calcolato a tavolino. Per noi era necessario seguire solo la trama del re, i significati più profondi devono emergere da sé, dallo sviluppo del personaggio del re e da una storia autentica.
Il punto di partenza non era di fare un film politico e neanche di proporre delle soluzioni per l’Europa, tra l’altro mentre giravamo era imprevedibile ciò che è accaduto con la Brexit o il colpo di stato in Turchia; avevamo magari visto arrivare i profughi in cerca di prospettive nuove. Alla luce anche di ciò che si è verificato in seguito, quindi, il film acquista ancora più valore perché possiamo pensare al nostro futuro, qui in Europa, attraverso il personaggio del re. Siamo tutti coscienti che l’Europa, come progetto, è fragile e questa è una realtà che fa paura, unendoci.
Ripensando al nostro protagonista, lo amiamo per la complessità, i dubbi, l’umiltà, ma anche per la volontà che dimostra di scoprire se stesso e di diventare un personaggio pubblico che è anche un uomo, senza dimenticare che è un re. Lui ha l’opportunità di ispirare la gente e di fondare una comunicazione, che concretamente manca tra il ‘palazzo’ in Belgio e i belgi, c’è effettivamente una distanza.

D: Nei primi minuti si ascolta nel film una battuta particolarmente significativa: “Il Belgio è un vero Paese o solo un compromesso geopolitico”. A pronunciarla è Duncan Lloyd (a cui dà volto Pieter van der Houwen). Quanto le battute del regista sul grande schermo corrispondono al vostro pensiero? Potremmo dire che è un po’ il vostro alter ego?
Jessica Woodworth: Duncan Lloyd è un’estensione della nostra sensibilità. Io ho una distanza perché sono di origine americana, ho la doppia nazionalità per cui mi trovo dentro da sedici anni, ma riesco anche a guardare con oggettività. Il Belgio non è un Paese unito, non ha un’identità comune, siamo uniti dal calcio, dalla cucina e soprattutto dal fatto che non siamo olandesi, né tedeschi, né francesi. La tragedia è la questione della lingua, i francofoni non parlano olandese, i fiamminghi parlano il francese, ma non con amore, è solo pragmatica, ma funziona.
Volevamo sviluppare soprattutto il personaggio del re come linea principale dato che in lui si svegliano tante cose, le sue domande potrebbero essere le nostre.

D: Nel vostro lungometraggio, l’assistente del re (Lucie Debay), rivolgendosi al regista, lo provoca dicendo: “La videocamera la fa sentire in diritto di scavare nella vita altrui”. Se rigirassi a lei questa domanda, cosa risponderebbe?
Jessica Woodworth: Volevamo usare un codice etico di un documentarista quando entra nella vita degli altri rispetto a come può ridurre o semplificare le cose. Si tratta di una responsabilità immensa.
Lì lo abbiamo inserito per gli spettatori per suggerire di essere coscienti sempre del gioco, del codice del film realizzato con queste frontiere etiche e anche per ricordargli, nello specifico, che ci troviamo nel codice di Lloyd, il quale si chiede continuamente cosa può domandare e filmare. Questo atteggiamento prosegue anche in fase di montaggio, interrogandosi su cosa può usare per l’immagine del re da restituire. Lui potrebbe utilizzare tutto, ma è rimasto molto integro.
Quando hai la camera, sia nel documentario che per realizzare un lungometraggio di fiction, hai sempre una responsabilità enorme, non c’è mai un’obiettività, stai sempre giudicando, il tutto è molto delicato.

Maria Lucia Tangorra

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