Benvenuti in Germania, dove il “bene” del bambino può diventare un Male
Le autorità tedesche probabilmente non gradirebbero, ma qui titolare “Jugendamt macht frei”, parafrasando così Auschwitz, non sarebbe né eccessivo né sbagliato. Non lo sarebbe innanzitutto perché lo Jugendamt, ente di controllo della famiglia e della gioventù, è un assai controverso ente locale tedesco (e austriaco) le cui linee guida risalgono proprio al periodo in cui venne istituito, ovvero quando vi erano i Nazisti al potere in Germania. E per quanto possa suonare strano, assurdo, non ci si è sforzati troppo, nel Dopoguerra, per aggiornare un simile abominio giuridico…
Sì, perché pur trincerandone la legalità dietro un più presunto che reale “bene del bambino”, “Kindeswohl” in tedesco, lo Jugendamt si presenta più che altro come un potente, invadente, aggressivo sistema di controllo preposto a favorire in ogni modo possibile e immaginabile il genitore tedesco, nelle coppie di nazionalità mista. Con esiti particolarmente perversi. Ne abbiamo avuto conferma durante il Q&A successivo all’anteprima di Kindeswohl, il bene del bambino, avvenuta il 13 febbraio al Cinema Farnese di Roma. Giacché, come emerso dalle testimonianze degli autori del film o da quelle delle avvocatesse Laura Cossar, Irene Margherita Gonnelli e Susanna Eichner, assai documentate non soltanto sul caso che hanno seguito da vicino, ma anche su altri non meno clamorosi avvenuti in Italia o all’estero, le procedure in vigore nello stato tedesco approdano molte volte ad autentici abusi o comunque a pratiche discutibilissime (per usare un eufemismo) sul piano etico e legale; tra cui potremmo citare le frequenti, martellanti, perniciose pressioni psicologiche attuate da funzionari dello Jugendamt sui minori, le accuse false e pretestuose ai genitori di altra nazionalità cui si intende sottrarre l’affidamento del figlio, i continui vizi di forma, le traduzione errate e tendenziose di documenti chiave esibite da tale ente in tribunale, l’invito a condurre i dibattimenti solo in lingua tedesca e senza l’ausilio di interpreti così da creare difficoltà a chiunque tale idioma non lo conosca alla perfezione. Tutto ciò finisce inevitabilmente per subordinare il “bene” dei più piccoli, spesso pesantemente traumatizzati dall’operato dello Jugendamt, a un neanche troppo velato apparentamento del bambino a proprietà di cui è lo stato tedesco a disporre secondo il proprio interesse, scavalcando di fatto anche il ruolo della famiglia. Tornando all’assunto iniziale: qualcuno è ancora in grado di stranirsi se si definiscono “nazistoidi” tali pratiche, non soltanto tollerate, ma strenuamente difese e persino incoraggiate, nella Germania di oggi?
Venendo finalmente al docu-film di Franco Angeli, la cui statura di cineasta votato – anche – all’impegno civile ci è nota da tempo, esso mette in scena con rigore, empatia, pudore e lucidità la vicenda di una madre, Marinella Colombo, che ha lottato a lungo per riottenere la custodia dei due figli avuti da un cittadino tedesco, sottratti proprio dal già menzionato Jugendamt che con lei – nonostante la totale inaffidabilità dell’altro genitore – ha giocato sempre più sporco, ponendo in atto una serie di sotterfugi, mistificazioni e azioni spregiudicate, che a sentir elencare nel film tutta la trafila ti si accappona istintivamente la pelle.
Marinella Colombo ha combattuto per anni, al fianco di un’associazione internazionale formata da genitori nelle sue stesse condizioni, per ottenere giustizia, ma paradossalmente dall’Italia ha avuto in risposta il carcere e alcune condanne grottesche, ridicole, tali da dimostrare che se in Germania sono ancora in vigore leggi disumane, da parte sua il sistema giudiziario italiano fa acqua da tutte le parti. Rendendo così possibile a personaggi insensibili, squallidi, come il Procuratore di Milano che vediamo all’opera nel film, sovvertire qualsiasi criterio di equità. I figli di Marinella, che avevano sempre espresso la volontà di restare con la madre e andare a vivere da lei, in Italia ci sono potuti tornare solo da maggiorenni. Ma, come abbiamo appreso al termine della proiezione, la ritrovata armonia famigliare è durata ben poco, anzi, pochissimo, visto che Marinella stessa è scomparsa per via di un male incredibilmente aggressivo (sul cui insorgere hanno probabilmente gravato le tante sofferenze e difficoltà degli ultimi anni) lo scorso settembre, cioè non molti mesi dopo il loro ritorno. Una sorte davvero beffarda e maligna.
Per raccontare questa storia destinata a scuotere le coscienze di tutti, il regista Franco Angeli e la protagonista Livia Bonifazi hanno scelto una formula tanto austera quanto densa di implicazioni emotive: tutti gli episodi salienti emergono infatti, in circa un’ora, attraverso la rappresentazione del serrato interrogatorio realmente svoltosi presso una Procura italiana. Vero e proprio “kammerspiel”, dal retrogusto assai amaro. Colpiscono infatti dritto al cuore (lasciando però aperti tutti quei varchi necessari a riflettere sulle palesi assurdità, attribuibili sia al così oppressivo istituto germanico che al comportamento, cinico e superficiale, delle nostre forze dell’ordine) l’onestà e il coraggio di Marinella, da un lato, l’atteggiamento inquisitorio, manipolatorio e fondamentalmente scorretto della Procura dall’altro.
L’inganno perpetrato ai danni della protagonista dai tutori dell’ordine è di quelli che possono lasciare scioccati, ma ciò non le impedirà di diventare, più avanti, una paladina dei diritti genitoriali, specie agli occhi di chi dallo Jugendamt ha subito nel tempo analoghi torti. Se l’intensità di Livia Bonifazi riempie l’inquadratura, l’attenzione del pubblico rimane desta anche per la qualità di una regia in grado di rendere lo spazio scenico ancora più ansiogeno, claustrofobico; approccio registico tanto calibrato, questo, da trovare sempre il tono giusto per dialogare con quei contenuti, che, drammatizzati il minimo dalla penna di Franco Angelii e solo per enfatizzare l’abuso compiuto verso quei bambini ricondotti con la forza in Germania, si basano comunque per intero su fatti veramente accaduti.
Il riuscito cortocircuito tra elementi di fiction e cinema del reale non rimane peraltro materia inerte, ma spinge a riconsiderare la portata della storia ivi raccontata, anche alla luce delle didascalie finali. Ad alcuni potrà suonare curioso, incredibile, che all’interno dell’attuale Unione Europea resista una sorte di “enclave giuridica”, in grado di giustificare simili abusi. Chi ne sta ora scrivendo ha invece un’opinione molto meno positiva della stessa Unione Europea, opinione formatasi anche alla luce delle gravi diseguaglianze sociali ed economiche denunciate da pochi cineasti coraggiosi, vedi ad esempio Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre con il loro imprescindibile PIIGS.
Eppure, il fatto che “l’anomalia tedesca” sia stata oggetto di condanna anche da parte di organi inerenti all’Unione Europea, come pure alle Nazione Unite, nonché il fulcro di severe campagne mediatiche condotte presso paesi come la Francia o delle ferme prese di posizione attuate in nazioni come la Polonia, ci spinge a pensare che non si debba avere preclusioni ideologiche e che qualsiasi tribuna possa essere utile a condannare e in futuro magari a correggere questa aberrazione giuridica. Intanto importantissimo è chiarire le circostanze, ignote ai più, in cui simili episodi possono avere luogo. Soprattutto da noi, considerando che le istituzioni italiane si sono sovente dimostrate più pigre, sconclusionate e incapaci di altre, nel difendere i diritti del genitore italiano all’interno delle coppie italo-tedesche. E a tale scopo di certo si presta bene un film come Kindeswohl, il bene del bambino di Franco Angeli, che, dopo essere stato presentato al XIII BIF&ST di Bari, sarà disponibile on demand dal 18 febbraio su CGTV e su Prime Video.
Stefano Coccia