Austerity kills the dogs
“Rubata” a uno dei tanti economisti intervistati durante il film, quella dei 95 ossi buttati in una stanza con 100 cani, 5 dei quali rimarranno a bocca asciutta e verranno quindi addestrati a comportarsi la prossima volta in modo più feroce è competitivo, è senz’altro l’immagine che ricorre maggiormente in PIIGS – Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l’austerity, documentario-bomba che si deve all’accurata, caparbia, coraggiosa ricerca portata avanti dagli autori Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre. In tale ricerca, puntellata dagli interventi di intellettuali, esperti di economia, soggetti impegnati nel sociale, le ragioni dei 5 cani privati del loro osso (sovrapponibili anche, su scala nazionale, a quelle di paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e per l’appunto l’Italia, ugualmente vessati da una burocrazia europea tesa a rendere il bacino del Mediterraneo un immenso laboratorio di esperimenti sociali; coi rispettivi popoli nelle vesti di cavie sofferenti e malmesse, ed un potere finanziario sempre più impersonale, precocemente assolutizzato e ben lontano dagli stessi interessi produttivi, a trarre guadagno da tutto ciò) vengono contrapposte a quelle di un sistema ormai malato, drogato, compromesso nelle proprie basi etiche e persino in quelle socio-economiche, il cui unico punto fermo a livello di pianificazione su larga scala resta il cinismo criminale di personaggi alla Milton Friedman. Ovvero, nella fattispecie, l’ideatore della terrificante “Shock Therapy” e tra i principali ispiratori di un altro, diremmo quasi consequenziale, abominio politico, il golpe militare che mandò al potere Pinochet.
Eppure, in PIIGS – Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l’austerity la validità dell’analisi rappresenta solo uno dei punti di forza, giacché è nella continua tensione dialettica tra Macrocosmo e Microcosmo, ovvero tra studi di macro-economia ed esempi pratici da cui viene resa più chiara, evidente, la portata di quei fenomeni, che risiede una delle spinte più genuine del documentario, fondamentale peraltro per la sua riuscita cinematografica. Più in particolare, a finire sotto i riflettori è l’esperienza della Cooperativa sociale “Il Pungiglione”, attiva da qualche decennio nell’area dei Castelli Romani e importantissima per l’assistenza e il reinserimento in un contesto di vita civile di persone con disagi psichici di varia entità, colpita ora in modo selvaggio dalle politiche di austerità e da quei brutali, insensati tagli alla spesa sociale, che ne stanno mettendo a rischio la sopravvivenza. Già, perché le famose lacrime della Fornero sono per noi soltanto scarichi inquinanti, rifiuti tossici, goffi tentativi di mascherare la realtà. Ed è invece l’atto di osservare senza alcun filtro come si è modificata l’esistenza di coloro che realmente subiscono le conseguenze delle continue riduzioni della spesa pubblica, ciò che può sottolineare davvero l’assurdità di tali interventi, anzi, la loro totale mancanza di progettualità e di una qualsivoglia impronta etica.
I tre giovani autori saltano di continuo, con apprezzabile spigliatezza, dal pedinamento dei protagonisti di tale esperienza a discorsi e ragionamenti sulla crisi economica esplosa in Europa negli ultimi anni che appaiono senz’altro acuti, ben documentati, spesso controcorrente. E in questo accidentato percorso i registi del documentario hanno trovato alcune guide d’eccezione, che possono aiutare lo spettatore a fare chiarezza nella propria mente, riguardo a temi importanti che l’informazione “mainstream” tende spesso a manipolare, a presentare in maniera semplificata se non addirittura distorta. Notevoli, quindi, le interviste: gli interpellati vanno da Noam Chomsky a Yanis Varoufakis, da Erri De Luca a Paolo Barnard. Quest’ultimo, in particolare, conferma in pieno la sua fama di giornalista scomodo e fuori dagli schemi, prendendo di petto questioni come la sovranità finanziaria e il passaggio dalla Lira all’Euro, con argomentazioni forti, decise, che di sicuro resteranno sullo stomaco a una certa sinistra “radical chic”, con quella sua visione conformista e di comodo.
A margine di tutto ciò ci piace poi citare l’appoggio offerto all’operazione da un grande attore come Claudio Santamaria, sua la voce fuori campo da cui vengono narrati gli eventi, anche perché negli ultimi tempi lo scanzonato interprete aveva saputo prendere, a sua volta, posizioni non convenzionali e di sicuro poco tenere nei confronti dell’establishment politico e culturale italiano. Il convergere di queste sinergie può mettere infine in secondo piano la struttura senza dubbio un po’ grezza, caotica, fin troppo guascona del documentario. In circostanze del genere simili scelte appaiono comunque peccati veniali. Se non addirittura meritevoli di un applauso. Perché quel sommarsi di brevi inserti animati, derive pop (divertente quella dedicata alla indie band Lo Stato Sociale), schegge di incontri con personalità della finanza, della politica e della cultura, seppur poco mediato stilisticamente, si rivela poi utilissimo alla funzione divulgativa e speculativa dell’opera.
Stefano Coccia