Un mondo (non) a parte
Ancora una volta Kim Ki-duk ha bruciato tutti sul tempo, abbandonando la propria vita terrena a nemmeno sessant’anni di età, pare a causa di complicazioni dovute al famigerato covid19. Bruciare non è un verbo scelto a caso. Perché un fuoco invisibile ha animato prima la vita, poi il cinema del cineasta sudcoreano. Un uomo sempre proteso alla ricerca di qualcosa probabilmente irraggiungibile. Appare quasi simbolico, oltre che estremamente triste per la sua fine prematura, leggere sulle varie schede a lui dedicate della nascita in Corea del Sud e della morte nella lontana Lettonia, dove pare risiedesse da qualche tempo. Un percorso strano, con in mezzo un periodo di vita militare in patria, la scoperta dell’Europa (Parigi, in particolare), la pittura ed infine il cinema. O meglio un ennesimo inizio. Una parabola esistenziale che si rispecchia, inevitabilmente, in una filmografia accidentata e burrascosa, tanto personale – almeno nella sua prima parte – quanto indimenticabile ad uno sguardo esterno.
Undici lungometraggi nell’arco di otto anni, dal 1996 al 2004. Opere immerse in un coacervo inestricabile di passione, violenza, sofferenza, imperfezione. Da cui nasceva in modo spontaneo una forma di poesia unica, proprio perché proveniente dai bassifondi dell’animo umano. Fu la proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia dell’anno 2000 de L’isola (Seom) a rivelare l’insondabile profondità di un cinema da esplorare, al pari di una miniera ricca di metalli preziosi. Un finto scandalo – una sequenza, ovviamente solo suggerita, di ami da pesca nella vagina – montato da coloro troppo impegnati a guardare il classico dito che indica la luna, piuttosto che la bellezza della seconda; un’opera che si sarebbe rivelata invece scioccante nella sua purezza di raccontare un modo di amare in cui la sopraffazione fisica e psicologica, con vittime solo in apparenza predestinate, faceva parte integrante del sentimento. Quasi una filosofia esistenzialista, messa in scena in modo da suscitare emozioni profondissime. Un modus operandi replicato in opere successive come ad esempio il fondamentale Bad Guy (Nabbeun namja, 2001), sia pure con sfumature molto differenti, protese ad una descrizione sempre più completa di una pulsione amorosa da esternare anche attraverso una serie di conflitti sociali. Una lotta senza vinti né vincitori. Capace di lasciare sul metaforico terreno semplicemente la caducità intrinseca di esseri umani allo strenuo inseguimento di una forse impossibile elevazione morale da raggiungere appunto grazie al sentimento. Un cinema mai visto prima di allora, in grado di sedimentarsi nell’animo di spettatori di ogni latitudine. Ulteriormente rafforzato da altre opere come La samaritana (Samaria, 2004), folgorante esempio di un percorso diegetico magicamente sospeso tra brutalità di vita e dolcezza interiore. Una sorta di scarto spirituale che il cinema di Kim Ki-duk aveva già espresso compiutamente con il magnifico Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (Bom Yeoareum Gaeul Gyeoul Geurigo Bom, 2003), imprescindibile e suggestiva messa in scena di cicli vitali in cui si fondono crescita, amicizia, amore e inevitabili perdite, affrontate da un punto di vista (anche) religioso e tuttavia privo di dogmi particolari. In una simbiosi totale con una Natura assieme generosa Madre ed arcigna Matrigna. Un messaggio dalla valenza universale.
Il cerchio di questo fecondo periodo di cinema per Kim Ki-duk si chiude ancora alla Mostra del Cinema di Venezia 2004 dove viene presentato Ferro 3 – La casa vuota (Bin-jip). Una storia eterea nella quale l’amore trova il suo culmine trascendendo la dimensione fisica, contrassegnata come sempre da violenza e sofferenza. Per approdare infine ad uno stato di (im)perfezione dove la mente e l’immaginazione giocano un ruolo quintessenziale, unico antidoto alle bassezze sin troppo radicate nel quotidiano. Leone d’Argento e trionfo critico. Un Leone d’Oro che gli verrà, un po’ tardivamente assegnato quasi a titolo di risarcimento, nel 2013 con Pietà (Pieta) incisivo dramma edipico dalle nobili origini ma assai più convenzionale rispetto al cinema del suo primo periodo. A restare nella memoria, una volta spente le luci della ribalta, sono le foto di Kim Ki-duk che lascia il Lido con zaino a tracolla e premio sotto il braccio. Non eccentricità ma forse solo un ritorno a quella solitudine interiore a cui tutti noi siamo, per certi versi, “condannati”.
Dopo Ferro 3 il cinema di Kim Ki-duk conosce una sorta di stasi creativa, con opere che appaiono come reiterazioni non troppo ispirate di antichi splendori. L’arco (Hwai, 2005) ne è un esempio. Un tragico incidente accaduto sul set di Dream (Bi-mong, 2008) quasi costa la perdita della vita di un attrice. Kim Ki-duk cade in una depressione che ne blocca la iperattività per tre lunghi anni, al cui termine partorisce Arirang (2011), diario per immagini di questo stato di estrema prostrazione psicologica. Un’opera definitiva nella sua sincerità scevra di compromessi, unica nella storia della Settima Arte. Raramente, in qualsiasi altro settore, un artista ha avuto il coraggio di mettersi a nudo in maniera così diretta.
Nonostante abbia in seguito realizzato anche opere di una certa rilevanza sociale (One on One, Ildaeil 2014) e politica (Il prigioniero coreano, Geumul 2016) ci piace considerare Arirang come l’opera testamentaria con cui verrà ricordato. Un essere umano come molti altri, i cui errori ne hanno definito i contorni e che ha utilizzato il medium cinematografico come strumento di conoscenza. Arrivando in luoghi sconosciuti dove pochissimi hanno avuto il coraggio di inoltrarsi, se non pagando un prezzo molto alto.
La speranza è che le nuove generazioni, grazie a rassegne e affini, possano scoprire il suo cinema senza soluzione di continuità. Perché un cineasta come Kim Ki-duk meriterà sempre una sorte diversa dall’oblio culturale al quale molti, al giorno d’oggi, sembrano rassegnarsi.
Daniele De Angelis