Sul “mercato” intorno al cancro al seno
Benvenuti a “Cancerland”, dove le multinazionali speculano sulla vita e la morte di milioni di donne. La “dittatura dell’allegria”. La retorica della “guerriera”, della “battaglia”, della “sopravvivenza”. C’è chi dice no e chi si interroga. Chi da oltre un decennio sta approcciando la vera lotta, quella contro la disinformazione e la commercializzazione della scienza e del cancro.
Il documentario Pink Ribbons Inc. della canadese Léa Pool, uscito per la prima volta tra 2011 e 2012 non è la prova né la risposta di questa terrificante sovrastruttura capitalistica che cannibalizza il cancro al seno femminile. Ma è una provocazione ardente e ardita che pone molte domande e con indignazione evidente. A nome di tutte quelle donne che alla retorica del sorriso e allo stereotipo dell’amazzone che vende rossetti e azioni di borsa, preferiscono cercare giorno per giorno la “cura”, la luce oltre il tunnel che da sole devono percorrere, al di là della soffocante glassa rosa della giostra pubblicitaria. Tra chemio e radioterapia, operazioni invasive, calvario ospedaliero, drammi familiari, ricodifica del proprio modo di stare al mondo…
Innumerevoli multinazionali tra le quali la ben nota Avon hanno storicamente legato il proprio marchio al marketing del Nastro Rosa, quel Pink Ribbon che campeggia nel titolo del documentario incalzante diretto dalla Pool. Molte di queste aziende userebbero tale strategia, sostenere la campagna di informazione e ricerca sul cancro al seno con annessa campagna di prodotti, gadget e raccolte fondi, per fare un vero e proprio pinkwashing, un riciclaggio della propria immagine pubblica compromessa da altre verità. Per esempio quella più volte messa sotto la lente di ingrandimento, che molti loro prodotti possono essere essi stessi cancerogeni. E’ il caso dei cosmetici Avon o degli yogurt pompati ad ormoni vaccini della Yoplait.
Questo denuncia il documentario attraverso l’ordinato ma impetuoso fiume in piena delle interviste e testimonianze di pazienti, dottoresse, ex membri del mondo del marketing del Nastro Rosa. Tra racconti diretti, repertorio e reportage di alcune manifestazioni globalmente celebri, quali le varie corse o camminate per la cura organizzare da Avon o Susan G. Komen.
Il documentario più che smascherare o processare, affastella narrazioni e convoglia “rabbia” in un messaggio denso di materia bollente, fatta di scienza e di incredulità di fronte al alcuni dati che attendono vendetta. Sembra infatti che queste multinazionali investano realmente nella ricerca una percentuale irrisoria, al limite della vergogna, travestendo di “rosa” la propaganda pubblicitaria dei loro prodotti, dai frullati ai cosmetici agli orsetti alle auto di lusso. Come se la salute fosse uno di quegli oggetti e come se non fosse un diritto ma la conquista delle più forti. Una retorica populista e ai limiti del razzismo che discrimina, seleziona, ghettizza, divide e offende le donne e le loro famiglie incartandole in una confezione di filosofia positiva e caramelle velenose.
Il documentario prende le mosse dalla ricerca e dal libro del 2006 “Pink Ribbons, Inc: il cancro al seno e la politica della filantropia” di Samantha King, professore associato di studi di kinesiologia e salute alla Queen University.
Dove sta andando intanto la ricerca? Genetica, fattori ambientali, fattori di rischio, esiste un progetto realmente organico? Sin dagli anni ’40 le donne sono state “assoldate” all’esercito rosa, testimonial indirette, candidati manciuriani della dittatura capitalista che sfrutta la tragedia e l’ignoto per travestirsi di bontà, generosità, democrazia, giustizia e convenienza. Vendere e sedare la folla, attaccandosi al petto un nastro rosa. Ma dove quali progressi o possibilità nuove sta fornendo la ricerca? Chi la sotiene davvero’
Su questo il documentario interroga e mette in guardia e in un mondo dove retorica e immagine hanno ormai generato una nuova dittatura, quella invisibile e interconnessa di marketing-social-intrattenimento, la realtà cruda ma vera della vita si perde come lacrime nella pioggia, in un futuro che è già presente, più distopico che mai.
Sarah Panatta