Misteri – e semidei – della giungla nera
La prima edizione dell’Indian Film Festival si è chiusa ieri, 11 ottobre, con la proiezione di Kantara (2022), lungometraggio diretto e interpretato da Rishab Shetty. Rispetto ad altre opere viste durante il festival, nelle quali è la realtà metropolitana a risultare predominante, si passa qui a una dimensione più prettamente rurale, boschiva, selvaggia, misterica. L’ambientazione di tale racconto cinematografico, che può comunque contare su un prologo ottocentesco assai suggestivo, coincide infatti con le condizioni attuali di un piccolo villaggio perso nella foresta e minacciato dai nuovi interessi governativi, fatti valere dalle azioni disinvolte e aggressive del nuovo capo delle locali Guardie Forestali. Ma se non fosse lui a rappresentare il pericolo maggiore? Lo stile di vita sano della popolazione si fonda infatti sull’antico patto stipulato tra il padrone di quelle terre, che a metà ‘800 era un re, ed il semidio venerato dagli indigeni, i quali sono soliti dedicargli ogni anno e da tempo immemore una solenne processione. Il patto ha retto per quasi due secoli. Ma gli eredi della stessa famiglia reale che aveva ceduto i propri diritti su quelle terre, ottenendo in cambio i favori del semidio, non sembrerebbero altrettanto pii, per cui nell’arco di qualche generazione hanno cominciando a reclamarne il possesso. Prima con metodi più diretti e aggressivi, che erano andati subito incontro alla collera divina. E poi con metodi più sottili, in grado però di destabilizzare nel profondo la piccola comunità…
Toccherà quindi al giovane ed energico Shiva risolvere i propri dubbi e adempiere al destino di “mediatore” con il divino toccatogli in sorte, pur di proteggere la sua gente e con essa le più radicate tradizioni locali.
Ulteriore riprova della così sfaccettata composizione etnica, linguistica e religiosa dell’India, il film di Rishab Shetty è parlato in lingua Kannada, predominante nella parte sudoccidentale del paese. Conosciuta anche come canarese (ಕನ್ನಡ), è una lingua dravidica meridionale usata principalmente nel sud dello stato del Karnataka, ma in parte anche negli stati di Andhra Pradesh, Maharashtra e Tamil Nadu. Tanto da poter contare (comprendendo anche le piccole comunità emigrate all’estero) su circa 58 milioni di parlanti totali. Ed è probabilmente (stando alle indicazioni dell’Enciclopedia Treccani) la lingua dravidica più anticamente attestata: difatti, “a una iscrizione della metà del 5° sec. segue un’arte poetica del 9° secolo.”
Fatto questo breve excursus linguistico, possiamo dire che non difetta certo di capacità affabulatoria o di profondi motivi di fascinazione, l’ancestrale Kantara, sebbene il suo impianto narrativo scricchioli a volte un po’, di fronte a certi squilibri e ad improvvise variazioni tonali. Può stridere ad esempio il passaggio continuo e non sempre ben preparato dai toni tipici della commedia romantica (con l’innamorata di Shiva in imbarazzo per aver accettato un lavoro presso quelle Guardie Forestali, che almeno all’inizio avversano apertamente la loro comunità) al registro comico molto basico e bozzettistico delle relazioni tra i paesani, un continuo zigzagare portato avanti lambendo più volte l’ambito mistery/horror attraverso i sogni e l’elemento soprannaturale, per approdare poi brutalmente a un regolamento di conti tra i protagonisti dalle tinte particolarmente fosche e persino un po’ pulp.
Eppure, sebbene la sensazione sia di stare quasi sempre sulle montagne russe, notevolissima è la fascinazione del film a livello visivo e atmosferico. Soprattutto quando l’elemento mistico e rituale sale in primo piano. Non si tratta poi di un esoterismo superficiale, “folclorico”, bensì di un humus fertile per quell’apologo morale che prende forma sullo schermo ritagliandosi uno spazio importante, laddove un rapporto sano ed empatico con il Sacro è destinato ad essere premiato, mentre chi offende gratuitamente le tradizioni o compie altre azioni violente, esecrabili, verrà immancabilmente punito.
Stefano Coccia