Il gioco dello specchio
C’è un sottile filo rosso che connette Il sindaco del Rione Sanità con Joker ed è lo specchio; entrambi – seppur in maniera differente – ne esaltano la funzionalità simbolica e smascherante.
Il lavoro firmato da Todd Phillips è un film sul nemico per eccellenza. Un grande della nostra antichità, Cicerone, nelle “Lettere ad Attico” diceva: «nihil inimicius quam sibi ipse». Joker è senza dubbio in primis nemico di se stesso e arriva a etichettare l’altro da sé come nemico nel momento in cui si comporta male nei propri confronti. Un minimo comune denominatore tra le reazioni altrui che subisce è la derisione. Dietro Joker c’è Arthur Fleck, un uomo che sta cercando il proprio posto nel mondo e nello specifico in Gotham City – città che va sempre più a rotoli.
Lo vediamo per la prima volta mentre si trucca allo specchio. Sorriso dipinto sul volto (e interiormente), ma una lacrima scende dall’occhio sinistro, di quelle che dimostrano quanto si stia lacerando dentro. Clown di giorno, la notte aspira a essere comico di cabaret. Purtroppo l’impatto con la realtà è molto duro: prova sulla propria pelle quanto sia uno zimbello. Il primo episodio crudele nei suoi confronti scatenerà una risposta istintiva e violenta, innescando una reazione a catena di eventi in climax verso gli inferi.
«Mi ha sempre attratto la complessità di Joker e ho pensato che sarebbe stato interessante esplorarne le origini visto che nessuno lo aveva ancora fatto. Parte del suo mistero stava proprio nel non avere un’origine definita, quindi Silver Scott e io ci siamo seduti a scrivere una versione di come poteva essere prima che tutti lo conoscessimo. Abbiamo conservato certi elementi canonici e abbiamo ambientato la storia in una fatiscente Gotham City a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, epoca a cui risalgono alcuni grandi studi di personalità del cinema che amo. L’abbiamo scritta pensando a Joaquin Phoenix perché quando recita è capace di trasformarsi e va sempre fino in fondo», ha dichiarato il regista divenuto famoso con Una notte da leoni. Se da un lato sul piano della scrittura emergono proprio queste intenzioni, senza dubbio ciò che più lascia il segno nello spettatore è l’intensità così concreta e viscerale con cui Phoenix indossa i panni di quest’uomo. La chiave sta proprio qui perché, al di là dell’immaginario costruito specialmente attraverso i fumetti e le trasposizioni cinematografiche connesse a Batman, nel lungometraggio di Phillips si va alla radice del protagonista e del male, osservandolo con una lente di ingrandimento che rende Joker umano e – un attimo dopo – disumano. In circa due ore si tocca con mano come dietro l’azione più violenta ci possano essere delle ragioni (il che non significa giustificare) psichiatriche in questo caso, ma anche provocate dalla crudeltà oscura insita in chi è considerato “normale”.
«Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita» è una battuta-confessione che Arthur scrive su un taccuino e che tornerà più avanti. È una frase che fa raggelare il sangue per il disincanto che vi si cela e nonostante l’essere umano si trasformi in altro, ci si ritrova a empatizzare con lui quando asserisce con una sofferenza profonda e lucida: «nessuno pensa mai a mettersi nei panni degli altri».
Questo Joker è il ritratto di un uomo sul precipizio e lo dimostrano la performance vertiginosa di Phoenix così come una regia che mette in quadro la deriva umana (restano in mente in particolare il rallenti in corridoio e la discesa da Joker – con danza – sulla scalinata). Volutamente abbiamo deciso di non raccontarvi troppo delle figure che gravitano attorno ad Arthur (compresa sua madre) per non togliervi il gusto di addentrarvi in questa storia abile nel non fermarsi in superficie e nel rappresentare anche l’isolamento (individuale e collettivo) così come il contesto sociale dell’America di allora.
Il film è stato presentato in Concorso alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e sarà distribuito da Warner Bros il 3 ottobre.
Maria Lucia Tangorra