La musica “enka” non deve morire
Per la prima volta a Udine. E sul palco, al momento di presentare il nuovo lavoro, Tanaka Hiroyuki a.k.a. Sabu aveva un’aria quasi spaesata, svagata, non dissimile volendo da quella dei suoi personaggi, costantemente alle prese con situazioni dai risvolti più o meno assurdi. Inquadrati per un attimo dalle telecamere del teatro, i figli giovanissimi che lo hanno accompagnato in questa trasferta europea apparivano di gran lunga più euforici e a loro agio. Ma alle diverse emozioni colte in Sabu e nella sua famiglia ne faceva riscontro un’altra, quella di chi tra il pubblico era curioso di vederlo dal vivo, dopo essere rimasto a bocca aperta di fronte a Postman Blues, a Monday, a Mr. Long o ad altri suoi film. Ed è questo, insomma, il nostro punto di vista.
Diciamolo senza mezzi termini: ormai dal cineasta nipponico ci si aspetta ogni volta una genialata. Col rischio prima o poi di restare delusi. “Ma non è questo il giorno“, replichiamo noi parafrasando Aragorn e Il signore degli anelli: sin dalla primissima sequenza Jam rivela tutto il profondo senso dell’inquadratura, del movimento e quel rivolgere alle vicende umane uno sguardo beffardo, paradossale, che caratterizzano il cinema di Sabu sin dagli esordi; un cinema che talvolta può apparire incline alla demenzialità pura, ma che ha nelle sue pieghe un indiscutibile retrogusto beckettiano e una forte carica eversiva.
Lungi dall’essere semplice divertissement, quindi, Jam da un lato flirta con l’assurdo e dall’altro gioca con la valenza ritmica del montaggio. La sequenza d’apertura, che poteva essere una scontatissima fuga in auto con passeggero ferito a bordo, diviene così grazie anche all’ossessiva colonna sonora una ritmata, ossessiva corsa verso quell’incontro/scontro fatale da cui ha origine poi l’interminabile e articolatissimo flashback, nel quale i rapporti tra i diversi personaggi si definiranno attraverso un implacabile meccanismo ad orologeria.
Polarità opposte che si attraggono. Catalizzatore dei vari incastri è peraltro lo stralunato Hiroshi (Aoyagi Sho), pittoresco cantante di enka, una musica popolare dal forte accento melodrammatico che lo fa apparire quasi la versione nipponica dei neomelodici napoletani (o l’equivalente orientale del Tony Pisapia magistralmente interpretato da Tony Servillo ne L’uomo in più), con lui costantemente attorniato in scena da un nugolo di attempate e incontenibili fan. Una però si rivelerà più irrefrenabile delle altre. E il grottesco rapimento di Hiroshi da parte di questa signora, Masako (Tsutsui Mariko), si impone poco alla volta quale parodico controcanto di Misery non deve morire!
Gioco di concatenazioni temporali e all’interno dello spazio fisico vagamente alla Tom Tykwer, Jam vede intrecciarsi questo segmento narrativo con altri dai risvolti altrettanto esagerati, che riguardino la furiosa vendetta maturata all’interno di un clan della Yakuza o le surreali scelte di un giovane determinato a fare ogni giorno tre (improbabili) buone azioni, rispondendo così a un messaggio divino affidatogli per permettere alla propria ragazza di uscire dal coma. Tutto in questa narrazione ipertrofica pare orientarsi verso un misterioso orizzonte degli eventi, cui si tende attraverso il continuo, inesorabile movimento laterale dei protagonisti (sottolineato da ampi carrelli o da opportune scelte di montaggio) e sotto l’ulteriore spinta di una colonna sonora tendenzialmente free jazz, in cui il cigolio di una carrozzina e brevi composizioni minimaliste finiscono per ricordare ugualmente il battito del cuore o un respiro affannoso, mentre il repertorio enka del protagonista scandisce in modo ancora più beffardo lo svilupparsi del racconto. La folle sarabanda messa in moto da Sabu non si limita però a divertire, ad intrattenere in forma estremamente creativa, ma accarezza diversi ambienti della società giapponese proponendo, seppur in modo così naif, una loro riconfigurazione dagli intenti velatamente dissacratori.
Stefano Coccia