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Mr. Long

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VOTO: 8.5

C’era una volta

Secondo l’antropologo russo Vladimir Propp, ogni fiaba segue una predefinita e precisa struttura. Quando qualcuno degli elementi che la compongono viene a mancare o ha funzioni ambigue rispetto quelle destinategli, ecco che se ne vedono di tutti i colori. Seguire uno schema preciso, però, non vuol dire raccontare ogni volta sempre la stessa storia. Tutt’altro. Vuol dire semplicemente che, nel momento in cui alcune regole basilari vengono rispettate, quasi certamente si otterrà un prodotto coerente e di qualità, ma ci si potrà anche sbizzarrire circa la storia da costruire. Bene. Questo, penserete voi, al cinema è qualcosa che riguarda soltanto la sceneggiatura. Certamente. Eppure, volendoci concentrare su un aspetto riguardante esclusivamente la Settima Arte, ossia la regia, ecco che, ancora una volta, a seconda di movimenti di macchina, ambientazioni e generi scelti, le possibilità di creare ogni volta qualcosa di diverso raggiungono un numero esponenziale. Questa è l’operazione attuata, ad esempio, dall’attore e regista giapponese Hiroyuki Tanaka, in arte Sabu, nel suo Mr. Long, presentato in concorso alla 67° edizione del Festival di Berlino. Vediamo da vicino di cosa si tratta.
C’era una volta un gangster taiwanese – Mr. Long, appunto – che, di notte, era solito aggirarsi per le strade della città, al fine di commettere su commissione delitti di ogni genere. Un bel giorno il suo capo gli chiese di partire alla volta del Giappone, al fine di terminare uno dei suoi compiti. Le cose, però, non andranno secondo i piani e il nostro eroe sarà costretto a scappare ad una banda di malviventi, per poi trovare rifugio presso delle baracche di periferia. Sarà compito, a questo punto, di un bambino con una madre eroinomane e di un gruppo di bizzarri teatranti aiutare Mr. Long a rifarsi una vita onesta in quella città nuova e sconosciuta.
Cinema gangsteristico, cinema poetico e contemplativo. Sono questi i due generi che Sabu – quasi da abile prestigiatore – riesce ad alternare in maniera fluida all’interno del lungometraggio. E tutto sembra scorrere in modo naturale, con snodi narrativi a volte scioccanti e soluzioni di grande impatto emotivo. Il resto del lavoro viene fatto esclusivamente dalla macchina da presa: i dialoghi sono ridotti all’osso, la parola va direttamente alle immagini – talvolta anche grazie all’aiuto di flashback. Ed ecco che, per oltre due ore che sembrano durare solo poche decine di minuti, assistiamo ad una favola contemporanea, a tratti scherzosa, a tratti addirittura surreale e tanto, tanto commovente.
Grande peculiarità di questa pellicola di Sabu è, in realtà, il già menzionato gruppo di teatranti: personaggi sì fuori dagli schemi ma mai sopra le righe, dai modi di fare decisamente naïf che, quasi in funzione di deus ex machina, decidono di aiutare il misterioso sconosciuto che non parla la loro lingua e dalle insospettabili doti culinarie ad aprire un chiosco di noodles. In poche parole, ad iniziare una nuova vita in cui, a quanto pare, c’è posto anche per nuovi affetti, per una vera e propria famiglia di cui il bambino-aiutante e sua mamma sembrano fare parte.
Di andamento – a differenza di quanto inizialmente si possa intuire – tutt’altro che lineare, questo ultimo lavoro di Sabu attinge sì a piene mani da gran parte della produzione cinematografica giapponese degli ultimi anni – in particolare in molti potrebbero pensare vagamente al bellissimo L’estate di Kikujiro, di Takeshi Kitano, ad esempio – ma riesce a creare a sua volta qualcosa di totalmente nuovo, una favola poetica che vede al suo interno elementi tipici dei gangster movies seminati sapientemente qua e là. In poche parole, uno dei migliori lungometraggi presentati durante la 67° Berlinale, che, anche soltanto per la commovente scena finale, meriterebbe di certo più di un riconoscimento. E vissero tutti felici e contenti.

Marina Pavido

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