Si salvi chi può
Dagli anni Sessanta, in Austria, è iniziata un’esplicita critica nei confronti della borghesia viennese da parte di numerosi artisti ed intellettuali dell’epoca, tra cui si annoverano anche autori come Thomas Bernhardt, Peter Turrini ed Elfriede Jelinek. Tale corrente – che principalmente sta a puntare il dito contro quella sorta di fascismo latente ancora fortemente radicato nella società odierna – continua, ancora oggi, ad influenzare numerosi artisti, drammaturghi e sceneggiatori. Soprattutto quando si tratta di fare della satira. Uno sguardo particolarmente tagliente, ad esempio, è presente – volendo restare in ambito cinematografico – nelle opere di Ulrich Seidl, l’autore maggiormente conosciuto in ambito internazionale. Eppure, velatamente o meno, è leit motiv di molti altri lungometraggi, anche di produzione contemporanea. Uno di essi, ad esempio, è Wilde Maus, scritto, diretto ed interpretato dal comico Josef Hader e presentato in concorso alla 67° Berlinale.
Ci troviamo a Vienna. Georg è uno stimato critico musicale che – considerato il suo modo di lavorare ormai obsoleto – viene ingiustamente licenziato. L’uomo, però, decide di non dire nulla alla propria moglie – già parecchio sotto pressione per il fatto di non riuscire a restare incinta – e tenta di avviare, insieme ad un vecchio conoscente incontrato per caso al Prater, la gestione di una giostra del parco divertimenti. Contemporaneamente, di notte, mette in atto delle piccole vendette nei confronti del suo ex capo, rigandogli la macchina o distruggendo le telecamere di sorveglianza sotto casa di quest’ultimo. Tale situazione di precario equilibrio, però, sembra non essere destinata a durare a lungo.
Che il lungometraggio di Hader si possa classificare a tutti gli effetti come una commedia nera lo si può intuire sin dai primi fotogrammi, quando vediamo il protagonista discutere concitatamente di musica con una giovane collega, per poi ritrovarsi immobile e basito di fronte al capo, inespressivo, che gli sta comunicando il proprio licenziamento. Ed ecco che, sulle note di Vivaldi, vediamo Georg – in campo lungo – attraversare a piedi un’enorme distesa di neve, per poi scavare una buca al centro di essa e sedercisi dentro. Cosa avrà mai in mente? Lo scopriremo, ovviamente, in seguito. Fatto sta che, da questo momento in poi, una serie di gag spesso e volentieri anche politically scorrect faranno da cornice ad una storia che – sia dal punto di vista dello script in sé che dal punto di vista registico – sembra ben funzionare sul grande schermo. I tempi comici azzeccati ed un’indovinata direzione attoriale – che prevede personaggi quasi statici ed apparentemente inespressivi – uniti ad una regia fatta sovente di camera fissa e di primissimi piani, stanno a mettere in scena sì un dramma personale, ma soprattutto, una (non troppo) velata critica alla società ed al mondo del lavoro, dove il detto “mors tua, vita mea” mai è stato così azzeccato. Basti pensare, di fatto, al capo di Georg che ha rovinato la carriera di quest’ultimo, mentre lo stesso Georg, a sua volta, si scopre aver stroncato la carriera di un giovane aspirante musicista, costretto a lavorare ad una tavola calda giapponese. Sullo sfondo, una Vienna in questo caso poco valorizzata, se non durante i tramonti visti dall’alto di una delle giostre del Prater, che – spesso cupa e piovosa – fa da spettatrice silente alle disavventure del nostro protagonista.
Una commedia che spara a zero proprio su tutto e su tutti, in pratica. Persino su noi italiani (che novità, eh?), quando l’amico del protagonista definisce scherzosamente (ma non troppo) l’Italia come “il culo del mondo”. Una commedia che somiglia sì a molte altre commedie di produzione austriaca o tedesca contemporanee, ma che risulta decisamente ben confezionata, nel suo piccolo e nella sua (apparente) semplicità.
Marina Pavido