Indimenticabile Giacometti
Che un attore del calibro di Stanley Tucci sia piuttosto convincente, a prescindere dal ruolo che gli capiti di interpretare, è ormai un dato di fatto. Il caro Stanley, però, ha già da tempo dimostrato di essere anche un capace regista. Basti pensare, ad esempio, a Gli imbroglioni o a Il segreto di Joe Gould, giusto per fare un paio di esempi. Erano anni, però, che non gli capitava di girare qualcosa di nuovo. Ed ecco che, magicamente, è ricomparso, dietro la macchina da presa, alla 67° edizione del Festival di Berlino, dove ha presentato Fuori Concorso Final Portrait, singolare biopic dedicato all’artista Alberto Giacometti. Singolare non soltanto perché ci viene raccontato unicamente un solo, ma significativo episodio della vita dello scultore e pittore svizzero di origine italiana, ma anche perché Tucci – grazie ad una personale messa in scena – è riuscito a dar vita ad un ritratto dell’artista che di certo rimarrà impresso nella memoria collettiva per molto tempo (grazie anche alla bravura di Geoffrey Rush, ovviamente). Ma andiamo per gradi.
Siamo a Parigi, nel 1964, due anni prima della morte di Giacometti. Il giovane scrittore americano James Lord (Armie Hammer) è impegnato a farsi fare un ritratto dall’artista, così, ogni giorno, si reca presso il suo studio. Dai loro incontri nascerà un’amicizia destinata a durare sino alla morte di Giacometti stesso.
Perché, dunque, questo ultimo lavoro di Tucci risulta particolarmente interessante? Non solo, ovviamente, perché la figura dello scultore riesce già di suo a catturare l’attenzione, ma anche perché grazie all’ambientazione (la maggior parte del lungometraggio si svolge all’interno dello studio di Giacometti) unita ad una regia attenta e mai scontata, oltre ad un montaggio usato spesso in modo volutamente non convenzionale ci troviamo davanti ad un prodotto elegante ed a suo modo ricercato, che, se lo si osserva attentamente, risulta molto meno banale di quanto inizialmente possa sembrare.
È sui primi piani e sui dettagli, in particolare, che Tucci fa affidamento. Siano essi dettagli della mano dell’artista intento a dipingere, dettagli dei quadri o delle sculture stesse, o dettagli del volto dei due protagonisti. Soprattutto per quanto riguarda i volti, diverse inquadrature – con relativi scavalcamenti di campo in questo caso particolarmente azzeccati – si susseguono con un montaggio frenetico nelle scene in cui James Lord è intento a posare per Giacometti. Malgrado la rilevanza di tali scelte registiche, però, il momento di maggior impatto in assoluto è rappresentato dall’inquadratura che vede l’artista – a destra dello schermo – osservare attentamente un mezzo busto da lui scolpito – situato a sinistra – ed accarezzarlo con la mano. Al centro, la figura, fuori fuoco, dello scrittore che osserva entrambi, prima l’uno, poi l’altro.
Il ritratto che ne viene fuori è un Alberto Giacometti apparentemente ruvido, ma anche gaudente, a volte insicuro e, soprattutto, alla costante ricerca di affetto, sia esso da parte della moglie che da parte di Caroline, prostituta parigina con cui ha una relazione da anni. Un Alberto Giacometti, però, che non riusciremo mai, forse, a comprendere fino in fondo, ma che, spesso e volentieri, ci lascia fuori dalla sua intimità. Emblematiche, a tal proposito, le numerose inquadrature dell’artista, durante la sua quotidianità, con la macchina da presa posta fuori dalla finestra, addirittura dietro i vetri.
Può, dunque, la sola regia fare molto per una sceneggiatura che, in fin dei conti, si è rivelata piuttosto classica, anche se ben scritta? Può farlo eccome. D’altronde, è – soprattutto – questo il grande potere della Settima Arte.
Marina Pavido