Non si può e non si deve dimenticare: intervista al regista di “Un posto sicuro”
Lo riteniamo senza alcun dubbio uno degli esordi più intensi ed emozionanti della stagione 2015-2016, passato un po’ troppo velocemente nelle sale, ma protagonista di un avvincente e fortunato tour di proiezioni dentro e fuori dal circuito festivaliero. Dimostrazione, questa, di un attaccamento viscerale nei confronti della propria opera, della storia che racconta (il disastro e il dramma dell’ETERNIT) e dei personaggi che la animano. Si tratta di Un posto sicuro di Francesco Ghiaccio, fresco vincitore del premio per il miglior film alla quinta edizione del Prato Film Festival, dove si aggiudicato anche il riconoscimento per il miglior attore non protagonista (andato a Giorgio Colangeli). Ed è proprio nella cinque giorni della kermesse toscana che lo abbiamo intercettato e intervistato. Il risultato è un botta e risposta che parte dalla sua opera prima e si allarga a macchia d’olio sui temi e gli stilemi del suo cinema.
D: Alterni il teatro al cinema: dove ti senti più a casa?
F.G.: Ho cominciato a scrivere di teatro perché ho frequentato la Scuola d’Arte Drammatica, dove tra l’altro ho conosciuto Marco D’Amore. Quindi i primi testi e i primi studi di teatro sono nati lì, ma il mio più grande sogno è sempre stato quello di fare cinema. Dopo aver scritto numerosi testi e fatto esperienze teatrali con diverse compagnie, sono stato richiamato dal canto della sirena della Settima Arte che proveniva da Roma. Ho deciso di rispondere a quel richiamo trasferendomi nella Capitale, dove ho iniziato a bussare alle case di produzione sino a quando qualcuno a deciso di darmi qualche piccola possibilità di andare sui set. Al tempo, però, di scrittura cinematografica in senso tecnico non sapevo assolutamente nulla e il passaggio dal teatro al cinema è stato davvero difficile, perché precedentemente avevo lavorato su un tipo di scrittura fondato soprattutto sul dialogo. Per affrontare il suddetto passaggio ho dovuto imparare a raccontare per immagini, simboli, silenzi e azioni. È stato davvero molto difficile. Ora mi sento a casa in entrambi i linguaggi e non è un caso che al centro di Un posto sicuro ci sia uno spettacolo, che si inserisce all’interno del linguaggio cinematografico con un linguaggio teatrale; ma convivono.
D: Hai girato e ambientato Un posto sicuro a Casale Monferrato, terra con la quale sembri avere un legame molto forte visti i tuoi precedenti dietro la macchina da presa (il cortometraggio Le voci bianche); come mai?
F.G.: Prima di tutto sono nato e cresciute a pochi km da lì. Quindi c’è proprio un’identità di pensiero e di sensazioni con quella terra, che mi ha sempre affascinato sin da quando ero bambino, anche attraverso la lettura degli scritti di Pavese. Quindi c’è sempre stato un amore segreto nei confronti di quei panorami collinari. Poi quando sono cresciuto e ho conosciuto la vicenda della fabbrica ETERNIT, tutta quella immagine poetica e di pace che avevo di quella terra si è frantumata. Scoprendo il disastro che è avvenuto lì ho subito reagito come cittadino e come autore. Ho sentito un sentimento di sdegno verso quello che abbiamo dovuto subire per anni e non mi sono potuto tirare indietro. Di conseguenza, la mia opera prima non poteva non raccontarlo. Con Marco D’Amore abbiamo iniziato a pensare a una storia che raccontasse la tragedia della ETERNIT. Abbiamo incontrato numerosi cittadini e ascoltato le loro testimonianze. La storia ha iniziato a prendere forma mano a mano, ma tenendo sempre al centro le vicende umane e la voglia di riscatto di quella città, prima del disastro ambientale.
D: Sin dai tuoi primi cortometraggi hai sempre dimostrato una certa propensione nei confronti del sociale, andando decisamente controcorrente rispetto alla maggior parte dei tuoi colleghi che, per i rispettivi esordi, hanno deciso di puntare su un cinema più commerciale o di genere; non pensi sia un rischio?
F.G.: Ci ho messo un po’ a capire quale direzione volevo prendere, ma in realtà probabilmente avevo già la risposta, perché sentivo semplicemente crescere dentro di me tutta una serie di storie che toccavano il sociale. È stato il tempo a trovare dei punti di contatto tra queste storie. Poi ho capito che per me sono più importanti le persone della storia, anche se quest’ultima rappresenta il vero motore portante, perché alla fine di tutto è quella che comunica qualcosa alla spettatore. Però mettere al centro di una vicenda, un personaggio con le emozioni reali, ispirato dalla realtà e dal senso dell’Io più profondo, resta un nodo centrale che mi allontana da certi film che sembrano scritti, cioè finti, retorici, anche se hanno un linguaggio moderno. Sono retorici perché quello che raccontano non è vero. Non voglio dire che le storie devono essere per forza ambientate nel sociale o strettamente reali, ma possono essere anche di finzione pura o di fantascienza, purché i personaggi abbiano un punto di contatto con te che guardi. E questo accade solo se c’è un narratore che pensa a quelle storie in una maniera vera, concreta, umana. Quando scrivo cerco di capire che cosa sto vivendo in quel momento, in che contesto storico e sociale sono. Quello che sto scrivendo deve aiutare me a capire come sto vivendo in quel momento lì. Se questa cosa accade, allora la storia va avanti, altrimenti mi fermo e aspetto un nuovo stimolo. Se poi si ha fortuna e si riesce ad arrivare alla fine, realizzando un film, uno spettacolo teatrale o un romanzo, a quel punto si arriva a parlare veramente con lo spettatore o il lettore. Chi ascolta sente che anche in te c’è una difficoltà. Chi ti sente e ti legge arriva a capire anche un po’ di te che sei l’autore. Tu che nel frattempo lavorando a quell’opera stai cercando di capire anche un po’ di te stesso. Non è un caso che una svolta importante per la storia di Un posto sicuro è arrivata quando io e Marco D’Amore abbiamo detto una cosa sincera, che ci riguardava nel profondo: di questa vicenda sapevamo solo che c’era stata una fabbrica e un disastro da essa causato, ma non avevamo alcuna idea delle dimensioni così grandi di questo disastro. Oggi che tutto è alla portata di tutti grazie a internet, è quasi un reato per un cittadino non conoscere, non informarsi e non prendere una posizione a riguardo.
D: Avevi a disposizione persone vere per raccontare una storia vera, cosa ti ha spinto a realizzare un lungometraggio di finzione al posto di un documentario?
F.G.: È una scelta legata sempre al mio desiderio di mettere al centro le persone in una maniera diversa. Intorno alla vicenda della fabbrica ETERNIT sono stati fatti tantissimi documentari, dove i protagonisti raccontavano la propria storia e quando abbiamo iniziato a incontrarli, abbiamo sentito che tutte quelle storie meritavano di essere raccontate individualmente. In tal senso, la finzione ci ha aiutato idealmente a raccontarle tutte. Con Marco D’Amore abbiamo preso i punti di forza di ognuna e abbiamo creato tre personaggi, tenendo sempre sullo sfondo la storia di tutta la città. Quindi quei tre personaggi che sono lì a proscenio, riassumono le vicende di tutti. Ma anche lì abbiamo fatto un ulteriore passo in avanti, facendo parlare quei personaggi in una maniera universale. Infatti, quando andiamo in giro nelle diverse città d’Italia per accompagnare il film, dove è successo qualcosa di simile a Casale Monferrato – certo non nella stessa misura –, lì l’immedesimazione con i personaggi è totale, come accaduto ad esempio a Taranto. I personaggi di Un posto sicuro diventavano di conseguenza gli spettatori stessi, i loro figli, i lori fratelli, le loro moglie e i loro amici. Sta qui il motivo di questa scelta.
D: Ti chiedo di metterti dall’altra parte. Da spettatore cosa ti piace vedere e cosa no?
F.G.: Io vedo tutto e quando dico tutto, è proprio tutto: dalle cosiddette americanate al cinema più impegnato, dai film demenziali ai Dardenne. La cosa che mi piace di più è quando il film ti tiene incollato alla poltrona, al di là del genere e del tono. Quel film lì deve rispettare la tua esigenza; ti deve divertire se è una commedia e ti deve colpire nel profondo se, invece, è un dramma. Per contro, non mi piace quando un film non rispecchia questo patto con lo spettatore, ossia quando non dice quello che doveva dire. O peggio ancora, non ti intrattiene. Se dieci minuto dopo l’inizio stacchi e pensi ad altro, o anticipi lo sviluppo della storia, o ancora lo avverti come finto, allora lì senti che ti stanno rubando del tempo prezioso.
D: E come reagisci davanti alle moderne forme di ibridazioni?
F.G.: Reagisco nello stesso identico modo di quando mi trovo al cospetto delle forme pure. Tu puoi mischiare gli stili quanto vuoi o decidere di fare qualcosa che prima non c’era, però devi dare un baricentro a quello che stai facendo, una direzione precisa e un fuoco. Perché quello che stai facendo ha sempre un fine. Se ti chiudi in un linguaggio che non comunica stai perdendo tempo tu e lo stai facendo anche a chi guarda. È come dire: abbiamo parlato, ma cosa ci siamo detti?
D: Hai lavorato anche alle sceneggiature di tuoi colleghi, come ad esempio a quella di Cavalli di Michele Rho; cosa cerchi di portare di tuo nei progetti altrui?
F.G.: Quella di scrivere per gli altri era ed è ancora uno dei miei desideri più importanti, sia al teatro che al cinema. Spero che continui così in futuro. Ogni tanto mi propongono di scrivere soggetti o sceneggiature per altri, ma accetto soltanto quando nel regista c’è un immaginario forte e un messaggio forte da trasmettere, che può essere sociale, comico e via dicendo. Lui deve sapere cosa vuole raccontare, perché se lui che deve reggere il timone lo sa, allora per me che devo scrivere il sentiero diventa chiaro da seguire. Quindi non metto qualcosa di mio che non coincide con il suo. So cosa voglio raccontare perché lui mi ha già indicato la strada. Se quella strada non è chiara, di conseguenza si sbaglia e si rischia di girare a vuoto.
D: Quello con Marco D’Amore è una collaborazione che va avanti da moltissimi anni; come riuscite a mantenerla viva?
F.G.: Il principale punto di contatto tra me e Marco è che entrambi crediamo moltissimo nell’importanza della narrazione. Per me il modo di dirigere e per lui quello di recitare sono generati dalle storie e dai personaggi. Quindi tutto quello che facciamo ha sempre questa Dea che ci ispira e ci guida. È facile lavorare insieme quando si ha una visione comune. È facile montare i progetti perché abbiamo questa linea guida. Se questa dovesse spegnersi, la abbandoniamo e aspettiamo che si riaccenda di nuovo. Se lavori con qualcuno che ad ogni passo produttivo e creativo dimostra una crescita continua e costante, anche tu devi essere alla sua altezza. E lavorare al fianco di Marco mi è servito per crescere.
Francesco Del Grosso