Facciamo l’amore, non facciamo la guerra
Il 23 febbraio 2022 è una data che il popolo ucraino e il resto del mondo non possono e non devono dimenticare, poiché segna l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e di un conflitto che ancora oggi – e chissà per quanto – è e sarà causa di morte e devastazione. Ed è nelle ore immediatamente precedenti all’attacco che prende il via il racconto al centro di Honeymoon (Medovyi misiats) di Zhanna Ozirna, uno dei quattro lungometraggi a micro-budget prodotti nell’ambito della dodicesima edizione di Biennale College Cinema e presentati all’81esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica, in contemporanea da remoto nella sala web di MYmovies ONE.
L’opera prima della Ozirna, già autrice di pluripremiati cortometraggi, è ambientata e filmata in una piccola città dalle parti di Kiev, laddove la guerra è tuttora in corso. Si tratta del primo film di fiction ad essere girato su suolo ucraino durante le ostilità, con quest’ultime che fino ad oggi sono state raccontate prevalentemente da instant-movie e documentari come ad esempio il vincitore dell’Oscar, 20 Days in Mariupol, funzionali all’illustrazione dei crimini perpetrati dagli invasori o delle sofferenze della popolazione locale. Honeymoon dal canto suo va oltre, offrendo un racconto che è al contempo un atto di resistenza da parte di alcuni professionisti del cinema ucraino che prendendo parte al film hanno dato un piccolo contributo alla sopravvivenza dell’industria locale, ma anche di una coppia che come altre nella vita reale in questi anni di conflitto non hanno abbandonato le proprie case e la terra dove sono nate. È a loro che l’autrice si è espirata nello scrivere e dirigere l’odissea domestica di Taras e Olya, freschi sposi che trascorrono la prima notte nel loro nuovo appartamento in un recente complesso residenziale. All’alba vengono svegliati da gigantesche esplosioni. Non fanno in tempo a lasciare la città. Nel frattempo le truppe russe allestiscono il quartier generale nella loro casa, proprio nel loro cortile interno. La coppia si ritrova intrappolata nel proprio appartamento senza connessione, acqua o elettricità. Non sanno nemmeno se l’Ucraina esiste ancora. Per i cinque giorni successivi Taras e Olya esploreranno l’oscuro abisso della vera intimità tra due persone e affronteranno domande esistenziali cruciali sotto il costante pericolo di morte. Il loro obiettivo primario è mantenere segreta la loro presenza, organizzare un piano di fuga e credere nella possibilità di un futuro.
Il risultato è un dramma umano a sfondo bellico nel senso letterale del termine, perché la guerra c’è, è presente, si sente, se ne avvertono pesantemente gli effetti, ma non si vede, restando fuori dalla porta e dalle finestre dell’appartamento che fa da cornice alla vicenda. Si sentono piuttosto esplosioni a media e lunga distanza squarciare il silenzio o interrompono bruscamente dialoghi e momenti di intimità. Le bombe e i missili russi cadono ogni giorno, con i continui passaggi di aerei e il suono delle sirene che annunciano l’imminente ed ennesimo attacco a fare da “colonna sonora” al film e alla storia che racconta. Le notizie arrivano dalla radio, attraverso telefonate di amici e parenti. Con Honeymoon dunque l’autrice porta sullo schermo una forma di militanza di tipo diverso contro il tentativo di occupazione da parte russa che sembra non dover mai finire. Non ci propone infatti scene di distruzione o di combattimenti, purtroppo già viste in questi anni. Al contrario ci porta all’interno di un microcosmo che aspirava ad una pacifica quotidianità e che invece dovrà confrontarsi con l’esatto contrario. Intrappolata nel proprio appartamento, la coppia protagonista si troverà a fare giocoforza i conti con sentimenti agli opposti come la paura, la disperazione, l’amore e la speranza. Da qui nasce un mix di emozioni contrastanti che con livelli diversi di intensità e una tensione latente dettata dalla lotta per la sopravvivenza dei due personaggi accompagna l’intera fruizione. La mente in tal senso torna per analogie a Private di Saverio Costanzo.
Si assiste a una sorta di kammerspiel nel quale l’unità spazio-temporale e le sue regole non scritte contribuiscono a innescare il dispositivo attraverso il quale prende forma e sostanza la narrazione e la messa in quadro. Dispositivo che vede partecipe e parte attiva la macchina da presa e le performance attoriali. La prima si adatta camaleonticamente alla topografia e alla condizione circoscritta filmando tutto con macchina fissa o con chirurgici movimenti al fine di assecondare le geometrie dell’appartamento e diventare un testimone invisibile. Le seconde fanno altrettanto riversandosi in duetti che fanno salire e scendere il termometro emotivo anche grazie alle interpretazioni davvero coinvolgenti di Ira Nirsha e Roman Lutskyi.
Francesco Del Grosso