Casa dolce casa
Home, casa dolce casa, intesa quindi non solo come spazio fisico da cui scappare o nel quale rifugiarsi, ma anche e soprattutto come luogo di riferimento affettivo. Si potrebbe definire un trittico neorealista quello in concorso nella sezione Orizzonti del Festival lagunare. In primo luogo perché Home, presentato alla 73 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia da Fien Troch – giovane regista fiamminga al suo quarto lungometraggio – è stato ispirato da una storia realmente accaduta; in secondo luogo, perché ci parla un linguaggio crudo e spregiudicato.
Uno spaccato in cui si intrecciano le storie di tre adolescenti (Kevin, John, Sammy) e di Lina, sullo sfondo aleatorio e frenetico delle loro vite. Galleggiano nella loro esistenza, interessati a poco se non addirittura a niente, mentre fanno branco dentro un parcheggio in cui sviluppano legami carnali e utilizzano droghe di vario genere. Tre situazioni profondamente differenti che trovano come unico minimo comune denominatore un’endemica apatia generazionale. Il passo nel dirupo avverrà quando Kevin, uscito dal carcere dopo pochi mesi di detenzione, trascinerà l’intero gruppo verso un destino fatale e inaspettato.
Quello della Troch è un film disgiunto visivamente e concettualmente, in cui convivono sotto lo stesso tetto la realtà digitale della generazione protagonista e quella depauperata del ruolo educativo di genitori ed insegnanti. Questi ultimi ne fanno solo da cornice, relegati all’angolo di un lavoro che ha invece il suo epicentro sismico proprio nei pensieri e nelle difficoltà dei giovani. Due superfici che la Troch ha voluto distinguere nettamente dando al rapporto degli adolescenti lo sguardo imperfetto degli smartphone, il ritmo nei tagli e il volume assordante delle musiche, per contrapporli ai lunghi silenzi ed ai piani sequenza dei momenti in famiglia. Quel che emerge da questa dicotomia estetica è null’altro che l’incomunicabilità delle due dimensioni rappresentate in Home, dove solo le modalità coercitive (in senso più ampio) sembrano essere l’unica strada percorribile. L’ordine delle cose è costantemente minacciato dall’irresponsabilità dei figli da una parte e dall’inabilità dei genitori di farle fronte dall’altra. La regista belga sceglie intelligentemente di mantenere in equilibrio queste costanti tensioni inesplose, almeno fino al twist finale, laddove anche gli adulti resteranno travolti dalla perdita di quei valori che ormai non riconoscono più.
Riccardo Scano