Diversamente vedenti
Finalmente Naomi Kawase torna ai suoi massimi splendori, facendosi perdonare quel terribile scivolone di Le ricette della signora Toku (An). La regista nipponica, con Hikari, in competizione al Festival di Cannes 2017, torna ai temi che le sono cari, la maternità, l’incontro tra una persona portatrice di sofferenza come un lutto e una con qualche menomazione o disabilità, la natura come via di fuga, la foresta come luogo del mistero, dove si può svanire o trasportarsi in un’altra dimensione. Temi trattati in particolare dalla regista nipponica in Mogari no mori.
Ancora una volta ambienta il suo film nei luoghi ancestrali della Prefettura di Nara, l’antichissima capitale giapponese, qui ritratta nei suoi colori autunnali. Con Hikari, che vuol dire luce, racconta di una donna, Misako, che si occupa di scrivere didascalie da leggere durante la proiezione di un film in modo che possa essere intellegibile alle persone non vedenti. In fondo si tratta di un qualcosa di organico alla storia del cinema nipponico, che all’epoca del muto ha prodotto la figura del benshi, il narratore, e delle stesse arti rappresentazionali tradizionali del Giappone che, come scriveva Roland Barthes, possono funzionare secondo più scritture diverse e parallele. Misako ha perso il padre, dato come disperso nella foresta. La donna incontra un fotografo più anziano, Masaya, che per una malattia sta diventando cieco, e che usa un apparecchio fotografico vintage. Due disabilità, due persone portatrici di una sofferenza e di una mancanza, due menomazioni dal punto di vista fisico e umano. L’espressione “diversamente qualcosa” usata per motivi politicamente corretti, si adatta perfettamente ai personaggi di Hikari, per i quali ciò che è considerato un vuoto, una privazione, diventa in realtà una pienezza. Così come lo sparire, e il morire, nell’Hanging Rock della regista giapponese, la foresta, significa in realtà ritrovarsi in un’altra dimensione, dell’esistenza, della percezione. “Non c’è nulla di più bello che scomparire” si dice nel film.
Hikari è la prima opera dichiaratamente metacinematografica di Naomi Kawase, che ragiona sulla consistenza stessa del cinema e della fotografia. La regista lo dichiara subito con la scena all’inizio del personaggio che entra in una sala cinematografica con la telecamera in mano. Nella stessa inquadratura coesistono tanto la proiezione che l’atto di riprendere. E poco dopo vediamo uno dei primi momenti del gruppo di lavoro, con due re-cadrage, due monitor interni al quadro, già un metacinema moltiplicato e potenziato. I personaggi non vedenti parlano della loro percezione del cinema, come di una capacità di immaginare e di immergersi nell’universo stesso del film. Quello di Naomi Kawase è un “diversamente cinema” che lavora con la luce, abbaglia l’immagine con i raggi del sole, li scompone con un prisma, e mette anche gli spettatori vedenti di fronte all’assenza, nelle immagini sfuocatissime che diventano una tavolozza di gialli e arancioni. È un cinema che allude a una realtà oltre quella delle sue immagini, ad altre sfere, altre dimensioni. Una cinema che mette in scena il vivere e il morire, come due dimensioni dell’essere umano, che nella natura trovano la propria complementarietà. La statua di sabbia sulla spiaggia, che si dissolve in un attimo, rappresenta l’impermanenza buddhista, la caducità della vita. E quando Masaya brucia i suoi negativi, annullandoli, dissolvendoli nella stessa luce arancione di un rogo, conferisce anche alla pellicola, al cinema lo stesso carattere di impermanenza. Anche il cinema di Naomi Kawase partecipa al palpitare della natura e della vita e al flusso del tempo.
Giampiero Raganelli