La fantascienza secondo Claire Denis
High Life è una pellicola di fantascienza, però passata e modellata attraverso le maglie ossessionali di Claire Denis. L’ambientazione e i meccanismi della narrazione rispettano il genere, anzi, a volte si attengono attentamente anche ad alcune severe clausole che rispettano la verità della scienza: il silenzio dello spazio, la gravità, l’ibernazione dei corpi ecc.. Questi accorgimenti tecnici, a tratti, sembrano dei piccoli frammenti avanzati dal viaggio interstellare di 2001: odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick. Abituati, ormai, a film di fantascienza in cui tutto è fracasso, dal montaggio al suono, questa placida silenziosità, di montaggio e di sonorità, serve ad alimentare il timbro che la Denis vuole imprimere alla storia. Quello che cambia, rispetto al sessantottesco film e a molti altri sci-fi dello stesso tenore, è che la Denis utilizza il genere fantascienza come un contenitore, che si concreta visualmente nella navicella, che ha la forma di un monolitico container di ferro.
High Life, visto al Festival Cineuropa#32, è solo un altro tassello filmico che, prima di inserirlo nel genere, va connesso con l’opera precedente della regista. La pellicola, sceneggiata dalla Denis assieme al sodale Jean-Pol Fargeau e all’aggiunto Geoff Cox, si fonda e prosegue quelle ossessioni e/o passioni che contraddistinguono il cinema dell’autrice francese, soprattutto quell’attenzione verso l’aspetto antropologico, alle relazioni interpersonali e al corpo. I suoi personaggi sono artefatte figure che rappresentano, però, gli esseri umani reali, inseriti in determinati contesti (agli estremi, soprattutto in questo caso) e alla deriva. Se nell’anteriore pellicola, Un beau soleil intérieur (tradotto dalla distribuzione italiana con un commerciale L’amore secondo Isabelle), la Denis si concentrava su una storia contemporanea intima, ed era attaccata alla protagonista (Juliette Binoche) osservandola ossessivamente in tutto quello che faceva e voleva, in High Life la macchina da presa è un poco più distante, e “studia” l’assortito gruppo racchiuso nella claustrofobica scatola metallica spaziale. Il gruppo di personaggi, tutti ragazzi che sulla terra si dedicavano al crimine e hanno deciso di aderire all’esperimento della navicella per evitare il carcere, con questa scelta si sono tramutate in cavie, osservate dalla Dottoressa Dibs (di nuovo la Binoche, che passa da osservata a osservatrice) come se fossero roditori. Uno spunto, questo, che crea un altro eco kubrickiano, cioè come la furbesca scelta di Alex di aderire alla “cura Ludovico” al posto del carcere, in Arancia Meccanica (1971). Tutti personaggi alla deriva, prima vivacchiando sulla terra rubando, e adesso verso una deriva infinta, in cui le relazioni interpersonali si dimostrano subito scostanti. In questa indagine – alla deriva –, calata nella fantascienza, l’autrice francese indaga anche i corpi, come quello della Dottoressa Dibs, martoriato come la carne umana del cinema di David Cronenberg. Inoltre, la Denis vuole mostrare quello che, in sostanza, non era stato mai mostrato nelle altre pellicole di fantascienza: la necessità del sesso. Al di là dell’accoppiamento come tramite per procreare (uno degli obiettivi della missione è di far nascere bambini nello spazio, per una nuova umanità), l’essenziale copula si palesa in differenti modi: attraverso attacchi animaleschi da parte di uno dei ragazzi verso una delle ragazze; con un desiderio dolce, come quello della Dibs verso l’astronauta Monte; con un’enigmatica attrazione incestuosa. Oppure, per quietare il fuoco sessuale e raggiungere l’orgasmo, si può utilizzare la cabina del piacere. Eppure, dietro a questi temi propri della Denis, si riscontrano anche diversi riverberi di pellicole di fantascienza passata. Al già citato Kubrick, con un enigmatico finale che ricorda nuovamente 2001 e, un poco, Sunshine (2007) di Danny Boyle, si aggiunge il Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij (i ricordi o le visioni mentali di Monte) e Alien3 (1993) di David Fincher (i galeotti assatanati). High Life, che ha vinto come miglior regia al Cineuropa#32, funziona in alcune singole sequenze, che hanno una straordinaria forza visionaria, come ad esempio il neonato che gioca dentro la navicella, oppure la scena finale. Nell’insieme il film, però, va alla deriva, come la nave spaziale. Non si comprende, fino in fondo, se voglia essere una riflessiva parodia del genere (le “citazioni” ai film passati, il sesso), oppure una seria variante del genere (il rispetto delle clausole scientifiche).
Roberto Baldassarre