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Città Giardino

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VOTO: 6.5

Tutto il resto è noia

Le città giardino delle nostre città sono quei quartieri residenziali immersi nel verde concepiti fin dai primi del ‘900 secondo una concezione urbanistica a misura d’uomo. La città giardino dell’omonimo film di Marco Piccarreda e Gaia Formenti, presentato fuori concorso a Filmmaker Festival 2018, è un centro di prima accoglienza in Sicilia, prossimo alla chiusura, che ospita ancora sei ragazzi provenienti dall’Africa, che qui stazionano in attesa che venga definita la loro posizione. A suo modo una città giardino dominata dall’imponente chioma di un grande albero sotto le cui fronde si può stare all’ombra, quasi a riprodurre, involontariamente, un’ambientazione da villaggio africano. Una chioma che nel corso del film verrà rovinata da un po’ di rami secchi. A suo modo un’oasi circondata da aree di degrado industriale, con tralicci, ciminiere, mentre in lontananza si scorge il mare e un porto.

I registi seguono i ragazzi nella loro monotona vita quotidiana, senza nessuna concessione al linguaggio didascalico del documentario tradizionale. Non sappiamo chi siano, da che paese africano provengano, come siano arrivati, quali siano le loro prospettive e i loro obiettivi. Tutto Città Giardino si svolge su un piano non verbale. In questo modo i registi comunicano il senso di stasi delle esistenze dei ragazzi parcheggiati nel centro. La loro esistenza è sospesa nell’attesa indefinita che succeda qualcosa. Sempre a sonnecchiare nei loro letti a castello, oppure a fare palestra in modo rudimentale, sollevando dei pesi costruiti con delle bottiglie piene d’acqua al posto dei pesi attaccate al bilanciere. E allo stesso tempo la loro esistenza è confinata in quell’ambiente da cui non possono uscire, in quel limbo isolato, da cui possono solo scrutare con il cannocchiale la vita e il mondo circostanti, il polo industriale, le case vicine, coppiette in effusioni amorose, ragazzi che fanno footing, le pecore. La vita dei ragazzi è come in una bolla, sottovuoto proprio come i cibi precotti che vengono serviti loro in vaschette di plastica, su cui i registi indugiano inquadrando quelle superfici trasparenti bagnate dalla condensa.
Dal documentario osservazionale i registi passano a inserti finzionali che intervallano il film, senza nessuna cesura, anche nella loro messa in scena: li vediamo maneggiare una telecamera, probabilmente per qualche laboratorio video. I loro momenti di fuga sono rappresentati da immagini, di una sorta di telenovela trash, che spesso si inceppa in pixel, che un ragazzo vede su un tablet appoggiato sui rami del grande albero, o di una fanciulla un po’ discinta da qualche chat che un altro giovane guarda nel telefonino. C’è poi un pranzo con degli ospiti in visita al centro. Ancora una volta giocato su un piano non verbale, con una musica spagnola che sovrasta.
La condizione incerta dei giovani migranti, smistati e separati dagli adulti. L’infanzia rubata. Marco Piccarreda e Gaia Formenti riescono a trattare il sociale senza fare un documentario sociale, almeno in senso classico. Un’unica didascalia alla fine parla del gran numero minori scomparsi, e dà il senso all’ultima scena, enigmatica, dove uno dei ragazzi è in qualche modo uscito ed è lui, ora, il soggetto delle osservazioni dal binocolo dell’ex-compagno.

Giampiero Raganelli

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