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Hellions

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VOTO: 6.5

Trick or Treat?

Sicuramente non sono le trovate visive o un certo gusto per i virtuosismi stilistici a mancare a Hellions, discesa nell’incubo, durante la notte di Halloween, di una diciassettenne alle prese con una gravidanza indesiderata.
Il problema dell’horror diretto dal canadese Bruce McDonald, altro After Hours nell’ultima edizione del Torino Film Festival, è semmai quello di aver avuto la presunzione di voler elevarsi a omaggio compiaciuto e definitivo di un certo immaginario orrorifico anni ottanta, senza però accompagnare a una forma tanto pregevole e suggestiva un adeguato e ponderato lavoro di scrittura.
Nella degenerazione folle e sanguinaria dell’interminabile nottata della povera Dora (Chloe Rose), un figlio in grembo e piccole, demoniache creature smaniose di giocare a dolcetto o scherzetto fuori dalla porta, ci sono tutti i topoi del genere, mischiati tra loro in un enorme calderone a tratti sorprendente ma, a lungo andare, sempre più confusionario e ripetitivo, dove la sceneggiatura viene presto accantonata all’inseguimento di un piacere puramente visivo ed emozionale.
Paiono ormai lontani i tempi in cui McDonald, con spirito anticonvenzionale e teorico, si approcciava al genere con il notevole Pontypool, cronaca di un’epidemia zombi veicolata attraverso il linguaggio, limitandosi invece, qui, a imbastire un gioco citazionista innocuo e fine a sé stesso. Tra lontani echi di Carpenter, scorci di scenari dal gusto burtoniano e tentativi di distorta cinefilia alla Rob Zombie, passando per mostri omicidi, case assediate e anticristi pronti a vedere la luce, Hellions si fa, tra mille, ostentati cliché, regno interiore, allucinato e terribile delle paure dell’adolescenza, dell’incubo di una maternità venuta prima del tempo.
Sono allora le atmosfere il vero punto di forza di un film altrimenti trascurabile, il valore aggiunto che rende Hellions, con tutti i suoi macroscopici difetti, un prodotto illogicamente ma innegabilmente affascinante, tra filtri e giochi di luce impazziti a illuminare una messa in scena evocativa attraverso uno sperimentalismo cromatico suggestivo e lisergico.
Servendosi di un’iconografia tanto abusata quanto piacevolmente familiare, di inserti destabilizzanti e ossessivi in un climax da inevitabile messa nera e di una fotografia capace di imprimersi sulla retina e nella memoria, McDonald (e il suo direttore della fotografia, Norayr Kasper) confeziona, consapevolmente e non con poca ironia, una piccola follia autocompiaciuta che non faticherà a trovare il suo pubblico di (accontentabili) sostenitori.

Mattia Caruso

 

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