Nella terra di nessuno
Per la cerimonia d’apertura dei concorsi, collocata orientativamente a metà della lunga kermesse cinematografica, il 35° Trieste Film Festival ha voluto calare un asso non da poco: Green Border (Zielona granica, in polacco) di Agnieszka Holland, già Premio Speciale della Giuria all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Il pubblico triestino ha ripagato con molto calore una simile scelta. Difatti, nonostante la ragguardevole durata di circa due ore e mezza, gli spettatori del Politeama Rossetti hanno seguito molto attentamente ed empaticamente tutta la proiezione, tributandole alla fine scroscianti applausi. Una reazione, questa, che va a rimarcare l’apprezzamento non soltanto per il film in sé, ma per la sensibilità con cui vi sono stati inseriti e sviluppati determinati temi, decisamente d’attualità.
Girato in un rigoroso, austero bianco e nero, nella cui sostanziale cupezza si riflette quella delle paludi e delle fitte foreste che fanno da sfondo alla vicenda, Green Border trascina lo spettatore in una delle tante frontiere scomode del pianeta: quella tra Bielorussia e Polonia, paesi i cui rapporti sono andati via via peggiorando, nel nome di geopolitiche feroci. La questione dei migranti ha rappresentato peraltro uno dei principali contenziosi, in questo lungo processo di deterioramento delle relazioni internazionali che, oltre alle nazioni testé citate, ha coinvolto sin dall’inizio la Russia e l’Unione Europa.
Senza allargare troppo l’obbiettivo, va comunque detto che il “limbo” in cui migliaia di profughi africani e mediorientali sono precipitati, nel ripetuto tentativo di varcare un confine presso il quale il diritto internazionale e le più elementari considerazioni di ordine umanitario sono andate da tempo a farsi benedire, ha origine nel braccio di ferro tra due stati, la Bielorussia e la Polonia, cinicamente intenzionati a usare quelle “risorse umane” allo sbando per portare avanti, sul piano politico, continue provocazioni.
Il bielorusso Lukashenko (un po’ come il turco Erdoğan in circostanze appena diverse) ha propagandisticamente attirato molti migranti al confine con la Polonia, prospettando loro un facile ingresso nell’Unione Europea. Mentre le autorità polacche, dal canto loro, hanno reagito addestrando polizia di frontiera e reparti militari in maniera tale che, attraverso respingimenti sempre più arbitrari e brutali, “il pacco” venisse rispedito al mittente. Un ping pong estenuante, crudele, del quale cui intere famiglie ritrovatesi a vagare per giorni, settimane, mesi, in una sorta di “terra di nessuno”, hanno finito per pagare le conseguenze.
La sceneggiatrice e regista polacca non fa sconti a nessuno, descrivendo situazioni al limite di cui ciascuno dei soggetti politici coinvolti ha una parte di responsabilità. Lei molto semplicemente si schiera dalla parte degli ultimi. E lo fa qui mettendo insieme, in un ritmo concitato che però concede spazio a motivi di riflessione, svariate storie tra cui quella di una famiglia siriana in fuga dalla guerra bloccata a lungo in tali foreste, quella di una psicoterapeuta divenuta attivista dopo aver assistito di persona a certi abusi di potere, quella di una giovane africana incinta pesantemente maltrattata al confine e quella di una guardia di frontiera polacca inizialmente ostile che però, dopo certe esperienze, comincerà a maturare un punto di vista diverso e più umano.
La forma narrativa per cui ha optato Agnieszka Holland in Green Border è una partitura cinematografica più lineare e indubbiamente meno articolata, stratificata, rispetto a quanto si era visto precedentemente in Mr.Jones, lungometraggio teso invece a commemorare le vittime dell’Holomodor. Ma la realistica sobrietà della messa in scena e il ritmo incalzante sono comunque elementi consoni allo scopo che la regista, in Green Border, si era sicuramente prefissa: colpire lo spettatore con un pugno allo stomaco, che lo porti a riconsiderare con maggior empatia e interesse certe situazioni ormai fuori controllo. Laddove la violenza, le rivalità tra gli Stati e il mettere in discussione i più elementari diritti umani generano di continuo caos e sofferenza.
Stefano Coccia