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Gagarine

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VOTO: 8

Ne resterà soltanto uno

Se il 73° Festival di Cannes non fosse stato messo in ghiacciaia a causa delle note cronache pandemiche, impedendo di fatto ai lavori selezionati di esordire sulla prestigiosa Croisette, probabilmente Gagarine sarebbe stato uno dei film più apprezzati da pubblico e critica di quella edizione. Da quell’appuntamento mancato sono trascorsi due anni, ma l’opera prima di Fanny Litard e Jeremy Trouilh ha comunque fatto il suo percorso dentro e fuori dal circuito festivaliero (tra le tappe figura quella capitolina nella sezione “Alice nella Città” della Festa del Cinema di Roma 2020), guadagnandosi anche una candidatura ai César e il premio per la rivelazione agli European Film Awards. Riconoscimenti, questi, che sottolineano i meriti e i valori portati sullo schermo dalla pellicola diretta dalla coppia francese, che esce finalmente nelle sale nostrane con Officine UBU a partire dal 19 maggio.
Il film prende il titolo dall’enorme complesso residenziale Cité Gagarine, situato nella periferia parigina, a sua volta battezzato così in onore del cosmonauta sovietico che lo inaugurò nel 1963. Un tempo simbolo di modernità e progresso, quel complesso è in procinto di essere demolito dopo anni di degrado rampante. Tra le 370 famiglie in attesa di essere assegnate a nuove abitazioni c’è chi è più pronto di altri a dire addio a un luogo così significativo, ma su tutti è il sedicenne Youri, che lì è cresciuto, a non volersi rassegnare. Mentre gli appartamenti attorno a lui si svuotano, e mentre i cantieri e gli operai si moltiplicano, il ragazzo che porta il nome del primo uomo nello spazio mette il talento ingegneristico e una fantasia “cosmica” al servizio di un sogno. Con i suoi amici Diana e Houssam, intraprende una missione per salvare Gagarine, trasformando l’enorme struttura nella sua “astronave”, prima che scompaia nello spazio per sempre.
È sufficiente leggere la sinossi per intuire quale siano le due anime che alimentano e coesistono nel Dna narrativo e drammaturgico di Gagarine. La favola e il dramma sociale contemporaneo s’intrecciano senza soluzione di continuità in una storia di amore, legami e resistenza pacifica, che ha il merito prima di ogni altra cosa di portare sullo schermo una visione inedita e non stereotipata delle banlieue parigine, che qui si trasformano nel luogo dei sogni e delle propria infanzia, un luogo da proteggere a ogni costo. Sappiamo, infatti, quanto complessa e rara possa essere una visione della periferia opposta e contraria rispetto a quella che il cinema e l’immaginario comune sono soliti mostrare e narrare sul grande schermo. Una visione caratterizzata da un linguaggio naturalistico, votata prevalentemente al realismo puro e crudo, che trascina il fruitore in un terreno di confronto e scontro tra culture diverse e seconde generazioni, all’interno di topografie di ghettizzazione e devianza. E la mente non può non tornare a L’odio di Mathieu Kassovitz, a La schivata di Abdel Kechiche, piuttosto che al più recente Una volta nella vita di Marie-Castille Mention-Schaar. La pellicola di Litard e Trouilh riesce a smarcarsi dalla suddetta visione, approcciando la materia con uno sguardo che strada facendo abbandona il realismo per spalancare le porte alla fantasia e all’immaginifico.
Il magma incandescente di emozioni scorre sulle corde del romanzo di formazione, muovendosi con poesia, rispetto e sobrietà in bilico tra reale (la coppia di registi utilizza anche materiali d’archivio che ci riportano al passato) e surreale. Proprio questo mix, così armoniosamente equilibrato e misurato nei dosaggi dei mood chiamati in causa anche grazie alle performance attoriali (a cominciare da quelle di Alséni Bathily e Lyna Khoudri, rispettivamente nei panni di Youri e Diana), consente alla scrittura e alla sua messa in quadro di attirare a sé l’attenzione dello spettatore di turno per poi accompagnarlo in un viaggio fisico (girato poco prima e durante la demolizione del complesso avvenuta nell’estate del 2019 in collaborazione con i suoi residenti a Ivry-sur-Seine) quanto fantastico del complesso architettonico che diventa così un microcosmo “ultra-terreno”.

Francesco Del Grosso

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