La notre musique
Bruno Dumont non ha mai fatto mistero di considerare i servizi giornalistici televisivi come finzione, come cinema, in quanto manipolati con il montaggio, mixati con suoni, con una forma molto diversa da quella che dovrebbero avere se fossero pure riprese, dirette, del reale. Questa sua idea si concretizza in France, la sua ultima opera presentata in Concorso a Cannes 74°. Il film è la storia di France de Meurs, una stupenda Léa Seydoux, la più grande e più popolare giornalista francese, conduttrice di telegiornali e autrice di reportage in zone calde di guerra o di casi di cronaca nera. La sua importanza e il suo potere sono enormi. Può essere ormai considerata come la persona più influente della nazione e viene ormai soprannominata Madame France. Assimilabile a una Giovanna d’Arco, eroina nazionale non priva di ambiguità, dai film precedenti di Dumont, Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc e Jeanne. Decisamente protagonista ed esibizionista, France deve apparire in ogni suo servizio, anche rubando la scena a quelli che dovrebbero essere i protagonisti, miliziani, famigliari di vittime e così via. La vediamo all’inizio prendersi gioco di Macron con la sua assistente, Mme Arpel, in una scena costruita manipolando immagini reali di una vera conferenza stampa del presidente, aggiungendo scena sia in montaggio sia con sovrapposizioni con un processo analogo a quello realizzato da Clint Eastwood alla fine di Ore 15:17 – Attacco al treno, sempre con un presidente francese peraltro. La finzione è anche un’enorme ipocrisia: Mme France finge di fare un’intera traversata su un’imbarcazione di migranti ma in realtà la fa su un lussuoso catamarano trasferendosi sulla barca fatiscente solo per le riprese, il che ci riporta a un classico hollywoodiano, I dimenticati di Preston Sturges, film che, ai quei tempi, si illudeva sul ruolo salvifico del cinema.
Il linguaggio dei servizi televisivi è quello del cinema, dice Dumont ma lo possiamo verificare tranquillamente anche con la nostra televisione, e questo è un segno della sua artificiosità. Mme France è la regista stessa dei suoi reportage, oltre che l’attrice protagonista. La vediamo, nelle zone di guerra, posizionare i guerriglieri jihadisti, sistemarli, dirigerli, organizzare la mise en scène. E soprattutto realizzare, nelle interviste, i campi controcampi vale a dire filmare in due momenti separati le risposte e le domande e poi dare l’illusione, montandole in modo alternato, che si siano svolte consecutivamente. Ci risulta che tale pratica sia comune nelle riprese delle interviste televisive. Il campo controcampo è l’essenza del linguaggio cinematografico, Godard lo definiva come la “notre musique”. Potremmo vedere ciò come una superiorità del cinema, il cui linguaggio è stato talmente assimilato da risultare naturale, senza che il pubblico televisivo ne percepisca l’innaturalezza. Ma il cinema può andare oltre, anche superare la vita e la morte, e Dumont lo dimostra con il campo controcampo al cimitero, tra France e i volti nelle fotografie sulle tombe del marito e del figlio, morti in un incidente d’auto. Anche nella scena stessa dell’incidente, su tornanti in montagna, ci sono delle soggettive interne al veicolo che sta precipitando, lo sguardo degli occupanti prossimi alla morte. Cosa che la televisione ancora non è riuscita a fare. Una scena molto straniante, girata in modo innaturale, con un tir che curiosamente viaggia sulle stradine di montagna, che inizia facendo il verso a Shining. Una scena che fa parte dei contrappunti usati spesso da Dumont, anche in questo film, di immagini paesaggistiche che simboleggiano stati d’animo, o loro cambiamenti dei personaggi.
L’assimilazione di France a un alter ego del regista è anche in uno dei servizi che fa in una località di campagna, tra le vacche che pascolano, su una donna che è moglie di uno stupratore, una storia che ricorda uno dei primi film del regista, L’umanità. E la giornalista riprende spesso paesaggi estremi, gole, canyon, dove si annidano i miliziani, per i suoi servizi. France è tutto giocato su un gioco di posizionamento della macchina da presa tra Dumont e France, tra gli sguardi dei due registi. Dumont fa percepire la sua presenza. Nell’inquadratura della partenza dell’imbarcazione dei migranti, ripresa dalla spiaggia, i membri della crew di France guardano in camera come a sincerarsi che la ripresa sia a posto. Ma la loro telecamera è già sulla barca, quello che guardano è l’occhio di Dumont. E France non può che concludersi con lo sguardo in camera della stessa protagonista, con l’incrocio delle due visioni, dove l’ultima parola spetta al regista ‘vero’, a Dumont.
Giampiero Raganelli