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Ore 15:17 – Attacco al treno

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VOTO: 6.5

Gli eroi della porta accanto

Pare che già negli Stati Uniti il nuovo film di Clint Eastwood, Ore 15:17 – Attacco al treno, non sia stato accolto da pubblico e critica con particolare entusiasmo. Giusto per usare un eufemismo. L’intenzione non è recitare a tutti i costi la parte dei bastian contrari, ma ai nostri occhi certi giudizi sono parsi fin troppo severi. E non perché il lungometraggio in questione sia un capolavoro, intendiamoci, ma perché a nostro avviso certi elementi narrativi (il patriottismo, la rappresentazione delle operazioni anti-terrorismo e della guerra, l’esaltazione del cameratismo) risuonavano in modo molto più tronfio e sospetto in un’opera come American Sniper, curiosamente celebrata da ogni dove, mentre qui vengono introdotti nel racconto tenendo opportunamente un basso profilo, ancorandoli cioè in primo luogo all’umanità dei personaggi, un’umanità non priva di crepe e di piccole o grandi debolezze. Sebbene si stia parlando dei protagonisti di un atto eroico, tra l’altro. Qualche scompenso narrativo tutto sommato evidente e le lodevoli intenzioni di fondo fanno sì che Ore 15:17 – Attacco al treno, pur non convincendo su tutti i fronti, sia in assoluto un oggetto filmico meritevole di attenzione. Fosse anche solo per la scelta, inusuale, di far interpretare ai veri soggetti della vicenda narrata il loro ruolo sullo schermo.

Per entrare nel vivo dell’azione (cosa che lo stesso Eastwood farà, opzione anche qui poco conforme alle regole non scritte dell’action, solo nell’ultimissima parte), ciò di cui si sta discutendo è la stupefacente risoluzione dell’attentato terroristico tentato da Ayoub El-Khazzani, marocchino di ventisei anni, ossia la potenziale strage provvidenzialmente evitata dal sangue freddo che tre giovani americani, ritrovatisi anch’essi il 21 agosto 2015 sul treno Thalys n.9364 partito da Amsterdam e diretto a Parigi, seppero dimostrare. Stiamo parlando di Spencer Stone, sergente dell’Air Force, Alek Scarlatos, soldato della Guardia Nazionale dell’Oregon reduce da una missione in Afghanistan, e di Anthony Sadler, ragazzo di colore amico degli altri due sin dai tempi della scuola.
Abbiamo già rimarcato l’eccezionalità, inerente all’aver voluto che fossero proprio quei giovani uomini a impersonare se stessi, nella trasposizione cinematografica di tali eventi. Per il resto Eastwood ha ripreso lo schema della narrazione a incastri, tipica di molti dei suoi ultimi film. Non con la stessa brillantezza, occorre dirlo, che aveva caratterizzato ad esempio lo splendido Sully. L’idea di voler preparare la sequenza dell’attentato mostrandoci prima dei comuni giovanotti americani alle prese con una formazione scolastica non eccelsa, con carriere per niente eccezionali davanti, con il cliché di un viaggio in Europa affrontato in maniera a tratti superficiale, balorda, di per sé è lodevole: vuole infatti indicare come sia possibile compiere gesti di grande valore civico perché animati da sani principi, senza quindi essere geni o spietate macchine da guerra. Il modo in cui si arriva cinematograficamente ad affermare ciò è però costellato di alti e bassi. La parte in cui loro sono ragazzi, provenienti tutti da famiglie difficili, potenziali loser, è senz’altro la più riuscita. Ed in linea con la capacità dell’autore di sfornare racconti di formazione fatti di luci ed ombre, intrisi quindi di un umanesimo veritiero, reale. Persino quando si accenna al tema del cameratismo, perché lo si fa con una paradossale innocenza. Il lungo segmento riguardante le peregrinazioni europee dei tre, trasformati per l’occasione in “turisti per caso” a zonzo tra Italia, Germania e Paesi Bassi, dovrebbe assolvere alla stessa funzione, ma appare tirato troppo per le lunghe, indicativo solo in parte dei rispettivi caratteri. Il look fotografico e narrativo da filmino delle vacanze fa pensare poi al frequente indebolirsi della poetica di alcuni maestri del cinema americano, di fronte al fascino e alle bellezze architettoniche del Vecchio Continente. Vedi ad esempio la fiacchezza del buon Woody Allen in To Rome with Love. Tuttavia Eastwood ci regala persino qui un momento impagabile e fuori dagli schemi, quello in cui una guida locale corregge le inesattezze sulla fine di Hitler credute vere fino ad allora dai poco istruiti turisti d’oltreoceano, facendo loro presente che non possono essere sempre gli USA a far fuori i “cattivi” di turno: in quel caso era stata l’avanzata sovietica e non la pressione degli anglo-americani, infatti, a spingere Hitler a darsi la morte.

La parte dell’azione terroristica coraggiosamente sventata sul treno è invece girata e montata coi tempi giusti, con un pathos autentico. La si segue con genuino coinvolgimento. Il successivo ritorno alla dimensione del reale, al contrario, non soddisfa un granché, sarà anche per l’eccessivo spazio concesso alle riprese originali del discorso effettuato dall’ex presidente francese Hollande, al momento di conferire ai tre nordamericani un’onorificenza altissima come la Legion d’Onore. Potrebbe in fondo apparire come uno sbilenco spot elettorale post “morte politica” dell’interessato, se tale espressione non risultasse eccessivamente cinica e tutto sommato gratuita, considerando le posizioni politiche del vecchio Clint. Ad ogni modo avremmo voluto conoscere meglio, piuttosto, le reazioni individuali dei tre protagonisti al clamore mediatico, dopo la loro salvifica impresa. Ma tant’è: teniamoci pure così com’è il ricordo di questi tre “eroi della porta accanto” e della loro inaspettata, picaresca apparizione sul grande schermo.

Stefano Coccia

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