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Felix in Wonderland

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VOTO: 7.5

Le dissonanze di Kubin

Film vincitore del concorso di Filmmaker Festival 2019, già presentato in anteprima a Locarno, Felix in Wonderland è un mediometraggio di Marie Losier, un suo nuovo videoritratto di artista, in questo caso il compositore di musica elettronica tedesco Felix Kubin, un nuovo elemento nella galleria della regista, di personaggi alternativi, di sperimentatori eclettici e ibridatori di forme d’arte. Marie Losier ancora una volta aggiunge la settima arte, usa il cinema in modo complementare, con un linguaggio cinematografico che è l’equivalente filmico di quello dell’artista in oggetto. Usa la cinepresa Panavision, il 16mm, omogeneizzando con il footage di repertorio, il formato 1,33:1, i viraggi della pellicola, le panoramiche a 360°, tutto un armamentario del cinema d’avanguardia, applicato a un musicista che è stato un pioniere del sintetizzatore analogico.

Felix Kubin, nato nel 1969, ha cominciato a suonare a otto anni, come si vede in un brano di repertorio del film, ha fatto parte del gruppo punk Die Egozentrischen 2 ed è poi stato tra i fondatori del gruppo di noise music Klangkrieg, specializzandosi nel sintetizzatore analogico Korg MS-20. Ha aperto anche una sua casa discografica, la Gagarin Records, dedicata al suo mito, il primo uomo nello spazio. Marie Losier lo ritrae cogliendone la dimensione dadaista e situazionista, lui sdraiato sull’asfalto o vestito da Ludwig di Baviera. Nei suoi esperimenti sulla registrazione dei suoni, che compongono come degli intermezzi del film, mettendo un microfono in un panino poi dato in pasto a un cane, captando così il rumore di masticamento, oppure cantando sotto l’acqua, oppure bruciando il microfono e registrando il crepitio della combustione. Riprende i suoi folli sketch, numeri di abilità e prestigio, come quello del finto ventriloquo, dove simula perfettamente un numero come quello del ventriloquo in frac, avendo però una persona in carne e ossa al posto del pupazzo, che imita alla perfezione le mosse, i movimenti della bocca, di quelle tradizionali marionette. La simulazione di una simulazione, il passaggio e il ritorno all’umano in carne e ossa. E ancora quell’altro momento, quello del finto specchio, sempre di gioco con la rappresentazione e il doppio. Losier ritrae Kubin in sequenze in bianco e nero, vestito da astronauta come quel Jurij Gagarin che rappresenta il suo mito, con una tuta di latta con in mano una strobosfera, una di quelle palle a specchi in voga nelle discoteche anni Ottanta, che diventa un pianeta. Un’immagine d’avanguardia che recupera un immaginario vintage, come quando il volto di Kubin si inserisce in una volta stellata. E il contrasto, insistito da parte della regista, di un musicista scienziato pazzo che schiaccia pulsanti, gira manopole, e gli strumenti musicali tradizionali come gli spartiti nella scena dell’orchestra, risale sempre alle sperimentazioni di quell’epoca.

La dissonanza tra suono e immagine, la simulazione dei battiti nel gioco di ping pong, o quella della finta nascita dal finto chirurgo: sono le due dimensioni dell’arte di Felix Kubin colte da Marie Losier. Un musicista che, come dichiara nel film, ha sempre inseguito una concezione di musica atonale, di dissonanza, abiurando qualsiasi tipo di armonia. L’arte non deve essere una melodia ma un qualcosa di stridente, deve muovere qualcosa nel fruitore. Così come il cinema di Marie Losier, che si autocita mostrando una maschera da lottatore messicano, un richiamo al suo film Cassandro the Exotico!, persegue la stessa idea di dissonanza con le immagini.

Giampiero Raganelli

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