La morte bianca
Ieri come oggi, così come in futuro, l’Everest rappresenta la più grande sfida di sempre per un alpinista. Scalare la montagna più alta del mondo con i suoi i 8.848 metri, raggiungere la vetta e tornare al campo base sani e salvi, è il sogno di tutti loro. Le numerose spedizioni sulla celebre e temuta catena montuosa himalayana, organizzate da Paesi diversi nei decenni passati, lo certificano. Non tutte purtroppo però sono state portate a termine, causando perdite umane ingenti. Tra queste c’è quella slovacca del 1988, in cui persero la vita gli scalatori Dusan Becik, Jaro Jasko, Peter Bozik e Josef Just.
Il gruppo trovò la morte cercando di percorrere la via più difficile dell’Everest in stile alpino, la “The Hard Way”, la parete sud-ovest così battezzata da Chris Bonington, il famoso scalatore britannico che dall’alto della sua esperienza aveva ritenuto impossibile da attraversare. I quattro accettarono la sfida, affrontando la via più difficile della loro vita, senza alcuna via d’uscita. Furono costretti a scalare in condizioni estreme e con un maltempo che li bloccò in un bivacco a 8.600 metri, a una temperatura di -30°. Nessuno riuscì a sopravvivere, con i loro nomi incisi per sempre sulla pietra di quella montagna maledetta.
A rievocare quell’immane tragedia il connazionale Pavol Bàrabaš, autore di numerosi film di montagna e avventura sulla sopravvivenza dei popoli in condizioni estreme, girati in zone selvagge inaccessibili, lontane dalla civiltà. Un regista che sin dai suoi esordi dietro la macchina da presa ha inseguito e raccontato storie i cui eroi tentano di superare i loro limiti e quelli imposti della natura. Limiti che non sempre l’uomo, nelle vesti di alpinista, è riuscito a oltrepassare come nel caso dei compianti protagonisti della spedizione slovacca del 1988, la cui odissea ad alta quota senza ritorno è al centro di Everest – The Hard Way, presentato nella sezione “Alp&Ism” della 69esima edizione del Trento Film Festival.
Il cineasta slovacco porta sullo schermo un ritratto classico nella confezione, ma sentito e doloroso nei contenuti, dai quali traspaiono tutte le emozioni di una tragedia che lo ha toccato profondamente. Oltre ad essere dei connazionali che come lui amavano in maniera viscerale la montagna, i quattro erano anche dei suoi cari amici. Il ché ha reso il documentario non solo la ricostruzione di un evento storico, ma anche un omaggio sentito a delle persone che hanno lottato per i propri sogni.
Con il supporto di preziosi materiali d’archivio video e fotografici, oltre a una serie di importanti testimonianze, tra cui quelle al capo spedizione Ivan Fiala e al medico Milan Skladaný, Bàrabaš ricostruisce la cronaca di quei giorni, ma anche le ferite ancora aperte provocate da quella perdita. Il momento in cui si chiudono le comunicazioni con il campo base sono davvero strazianti, reso attraverso i filmati e l’audio originali, fanno venire i brividi lungo la schiena, con le lancette dell’orologio che sembrano tornare esattamente a quegli istanti. Istanti che sono ancora vivi nelle parole di Fiala e che adesso rimarranno a lungo anche nella memoria dello spettatore.
Francesco Del Grosso