Come muli
Anche quest’anno al Trento Film Festival non sono mancate le emozioni forti, quelle scaturite dalla visione di alcune opere che nel corso della 69esima edizione hanno lasciato un segno del loro passaggio nella retina e nella mente dello spettatore. Tra queste figura Holy Bread, il documentario di Rahim Zabihi, presentato in anteprima italiana alla kermesse trentina, dove si è aggiudicato il Premio Forum per la Pace e i Diritti Umani.
La pellicola documenta il lavoro estremamente pericoloso dei “kulbar” curdi, lavoratori che cercano di mantenere le loro famiglie trasportando merci attraverso il confine iraniano. Nessuno sceglie di diventare un di loro, ma è semplicemente una conseguenza inevitabile della mancanza di altre opportunità. A piedi, portano i loro carichi lungo sentieri di montagna rocciosi, ripidi e scivolosi a causa della neve o del caldo torrido. Lungo il percorso, molti di loro si feriscono, muoiono nelle bufere di neve o vengono colpiti dalle armi della polizia di frontiera.
Il cineasta curdo, con quel coraggio che non gli è mai mancato e che lo ha portato a realizzare in passato progetti sulla lunga e breve d’istanza di fronte ai quali era impossibile rimanere indifferenti come The Land of Legends e Havar, si è gettato corpo e anima in una nuova fatica dietro la macchina da presa che lo ha impegnato per nove lunghissimi anni. Tanti ce ne sono voluti per permettere alla troupe di raccogliere sul campo una serie di testimonianze tra chi quel “lavoro” è costretto a farlo per far sopravvivere se stesso e la propria famiglia. Le storie strazianti di questi uomini appartenenti a diverse fasce d’età sono lame affilate che trafiggono il cuore, accompagnando le dure scene di viaggio filmate da Zabihi, che lo hanno portato a documentare l’impatto che ha vivere come dei veri muli da soma.
Holy Bread ci mostra un gruppo di uomini che, spinti dalla povertà, dalla fame e dalla disperazione, sopravvivono ai margini della società. Lunghi pedinamenti di giorno e di notte, in cui il regista ha più volte rischiato in prima persona di perdere la vita, diventano le prove tangibili di violazioni, umiliazioni e privazioni continue che questa gente è costretta a subire in silenzio. Quello che ci propone l’autore non è un’esperienza embedded, ma uno sguardo dall’interno che osserva gli eventi da vicino e senza filtri. Uno sguardo partecipe, coinvolto e non passivo, che immerge lo spettatore di turno nell’inferno quotidiano dei “kulbar”. Il risultato è un pugno assestato alla bocca dello stomaco del fruitore.
Il cineasta curdo non ha paura di riportare le parole e soprattutto di mostrare quanto si è palesato davanti ai suoi occhi nel corso dei nove anni di riprese, dei quali i sessanta minuti circa di montaggio effettivo rappresenta solo una minima parte. Quanto basta però a dare un volto e una voce, a lanciare una richiesta e un grido d’aiuto a quella larga fetta di mondo che preferisce voltarsi dall’altra parte. Motivo per cui quello firmato da Zabihi è un documento scottante e di denuncia, che non può e non deve essere archiviato dopo la visione.
Francesco Del Grosso