Il peso di una croce
Per Marco Bellocchio è di nuovo notte. Il momento di affrontare ancora il periodo più buio della Repubblica Italiana. Ed in effetti questo Esterno notte – presentato nella versione cinematografica al Festival di Cannes 2022 nella sezione Premiere mentre nelle nostre sale esce diviso in due parti a breve distanza l’una dall’altra, in attesa della trasmissione televisiva integrale il prossimo autunno – si riallaccia idealmente al finale dello straordinario Buongiorno, notte (2003), nel quale Bellocchio raccontava, con un empatia pari solo alla sua maestria, i giorni del rapimento dal punto di vista di Aldo Moro e dei suoi carcerieri. Come suggerisce anche il titolo, in Esterno notte cambia la prospettiva. Ampliandosi e divenendo racconto polifonico, un po’ come accaduto in Bella addormentata (2012), certamente ispirato alla vicenda di Eluana Englaro ma a tutti gli effetti affresco totale sul nostro paese. Cosa che si ripete in Esterno notte.
1978. L’Italia appare appunto un paese pericolosamente sull’orlo di un conflitto civile. Dilaniato tra un potere ormai ossidato e corrotto (quello della Democrazia Cristiana) ed un estremismo che sembra acquisire sempre maggior vigore, in totale assenza di qualsivoglia “valvola di sfogo” politica in Parlamento. Aldo Moro è il presidente della Democrazia Cristiana. La sua proposta politica, lucida e innovativa, prevede il coinvolgimento del Partito Comunista di Enrico Berlinguer, all’epoca forza quasi paritaria alla DC per numero di voti, nella formazione dell’imminente governo. Un’idea osteggiata da molti anche all’interno del proprio partito. E sono proprio i maggiorenti della Democrazia Cristiana, durante gli infiniti giorni del rapimento, a guadagnarsi il proscenio di Esterno notte. E certamente non in senso positivo. Le ambiguità comportamentali dei vari Francesco Cossiga e Giulio Andreotti vengono mostrate senza alcun bisogno di essere sottolineate. Come del resto la semplicità della figura di Aldo Moro, del quale Bellocchio ritrae, con pochi ed efficaci cenni in un lungo prologo prima del fatto di sangue, tutta la quotidiana routine, carica di umanità. Un uomo a sua insaputa proiettato verso un sorta di calvario laico. Aspetto sottolineato dal rapporto con Papa Paolo VI, gravemente malato, al quale sono riservati i momenti maggiormente pregnanti dell’intera versione per il cinema. Perché quello di Marco Bellocchio è puro cinema, che prevedibilmente utilizzerà il mezzo televisivo per approfondire e non per appiattire.
All’autore piacentino va riconosciuto il coraggio di aver fornito una propria versione dei fatti. Come del resto devono fare quei cineasti che scelgono di confrontarsi con la Storia. Nella fattispecie un terribile attentato alle nostre istituzioni di cui tutti conoscono l’inizio (il rapimento e la strage di via Fani) e la fine, con il ritrovamento del corpo di Aldo Moro nella Renault rossa in via Caetani. Ma il “dietro le quinte” del come e perché è accaduto un fatto di tale gravità rimane affidato alle singole opinioni in materia. Qualcuno dunque potrebbe rimanere deluso dalla ricostruzione, definiamola abbastanza fedele alle fonti ufficiali, operata da Bellocchio. Eppure resta semplicemente ammirevole l’equilibrio con cui Bellocchio riesce a far convivere dramma assoluto e momenti introspettivi, in un movimento a pendolo capace di coinvolgere anche lo spettatore più distratto. Grazie anche al contributo di un cast dalla bravura sopraffina, capeggiato da un impressionante Fabrizio Gifuni nei panni dello statista e dal solito, straordinario, Toni Servillo in quelli di Paolo VI.
Cinema e televisione, in questo raro caso, vedono felicemente annullata qualsiasi distanza.
Daniele De Angelis