Seta rosso sangue
È toccato a Dragon Blade di Daniel Lee l’onore di aprire lo scorso 24 aprile la 17esima edizione del Far East Film Festival. L’ultima fatica dietro la macchina da presa del noto e prolifico cineasta hongkonghese, con la parola fatica che va letta nel senso letterario del termine visto l’ingente e dispendioso sforzo economico e produttivo (il budget si aggira intorno ai 60.000 $) necessario per completarla, porta sul grande schermo un kolossal epico che ha come missione dichiarata quella di inondare la platea di turno con un convinto messaggio pacifista e anti-bellico. Messaggio a parte, celebrato con un afflato tale che a conti fatti finisce con lo straripare, l’obiettivo principale sembra invece un altro, ossia la conquista del box office nazionale e non solo. Per farlo, Lee raduna un cast di attori all star proveniente da Oriente e Occidente, capitanato dal trio formato da Jackie Chan, John Cusack e Adrien Brody.
La scelta di puntare su volti noti del panorama internazionale consente, infatti, a un’operazione come questa di allargare i propri orizzonti distributivi alle diverse latitudini. Se questo fosse il reale intento, allora siamo già sulla buona strada. Il tutto passa attraverso un’autentica joint venture tra est e ovest, basato su uno scontro di civiltà lontane destinato a diventare sul campo di battaglia un incontro di razze e culture separate da migliaia di km. L’incontro avviene sulla Via della Seta nell’anno 48 a.C. Un plotone di romani, capitanato da Lucio, arriva in Cina per preparare l’invasione. Si scontrerà con gli uomini di Hou An impegnati a difendere il confine. Fra i rivali si instaurerà un clima di rispetto che li porterà a collaborare alla costruzione delle fortificazioni e poi a combattere Tiberius, che tenta di spodestare a sua volta Lucio. È sufficiente la sinossi, quindi, per comprendere ancora più chiaramente quanto questo incrocio possa rappresentare, almeno cinematograficamente, un strumento utile alla causa dello sdoganamento e del superamento dei propri confini in chiave di mercato. Ben vengano allora ardite supposizioni interculturali non diverse da quella proposta qualche stagione fa dalla commedia nipponica Thermae Romae, anche se operazioni simili devono giocoforza passare per la rischiose ipotesi prive di fondamenti storici secondo cui i Romani si sarebbero spinti fino ai margini del deserto dei Gobi più di duemila anni fa. Ma la Settima Arte può e deve essere libera di partorire dal proprio ventre anche film basati su teorie o leggende, purché lo faccia nel pieno rispetto, perché coloro che li realizzano sono dei registi e non degli storici o degli studiosi. Per cui, adesione oppure no alle fonti a disposizione e ai reali fatti, quella raccontata da Lee è una storia e non la Storia, quindi si consiglia di prendere con le pinze tutto quello che il cineasta hongkonghese ha deciso di trasferire sullo schermo.
Con Dragon Blade, Lee continua il suo percorso all’insegna delle grandi storie epiche in costume intrapreso sette anni fa con Three Kingdoms, proseguito con 14 Blades e White Vengeance. Lasciati i cupi a adrenalinici polizieschi alla Dragon Squad ha preferito, dunque, rivolgere lo sguardo al passato, mantenendo inalterato sia lo stile sia il ritmo frenetico che hanno sempre fatto parte del suo dna cinematografico. Proprio la messa in quadro e la confezione sono, infatti, la scialuppa di salvataggio alla quale l’operazione è costretta ad aggrapparsi per evitare che l’acqua imbarcata la faccia affondare. Sul film, infatti, pesa un’inconsistenza decisamente evidente sul versante drammaturgico e narrativo, causata da una scrittura superficiale e frammentata che genera confusione e inutili digressioni. Non resta a questo punto che mettere da parte qualsiasi aspettativa nei confronti della sceneggiatura per concentrarsi unicamente sulla componente visiva, ossia sulla messa in scena e sulla regia. Lee mette al servizio di Jackie Chan la sua macchina da presa in perpetuo movimento, costruendo insieme a Big Brother (qui anche nelle vesti di coreografo delle scene d’azione) alcune sequenze marziali davvero efficaci, costruite sulla base di azioni reali e non di evoluzioni aeree che sfidano la legge di gravità come nel caso dei wuxia pian old style, che nella versione stereoscopica acquistano ulteriore potenza: dal combattimento di Huo An con la guerriera della tribù all’allenamento che coinvolge Romani e Cinesi, con la resa dei conti finale che da solo vale il prezzo del biglietto.
Francesco Del Grosso