Serpe in seno
Capita piuttosto frequentemente di imbattersi in film che con un finale da dimenticare gettano via una grandissima occasione, vanificando quanto di buono fatto prima dei venti e ultimi scellerati minuti. Capita spesso e per questo dovremmo aver oramai imparato a smaltire presto le delusioni, ma quando arrivano da pellicole come Confession, allora l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è stato fa davvero fatica ad andare via. Nel caso del film diretto da Lee Do-yun, il dispiacere è ancora più grande perché si tratta dell’esordio di un giovane regista di talento, del quale sentiremo sicuramente parlare nei prossimi anni.
Si tratta di un esordio, senza alcun dubbio tra i migliori della scorsa stagione per quanto riguarda la cinematografia sudcoreana, che riflette in pieno la maturità di un cineasta che dimostra di conoscere già molto bene il mestiere. Lee Do-Yun sa sempre dove piazzare la macchina da presa con soluzioni stilistiche variegate e mai banali, che aumentano in maniera esponenziale la carica empatica del racconto. Sono sufficienti, infatti, una manciata di scene per capire il suo vero potenziale e quello che ci aspetterà nell’arco delle due ore circa di visione, ossia qualcosa in grado di offrire alla platea di turno, in questo caso quella della 17esima edizione del Far East Film Festival, un concentrato di tensione e adrenalina che dopo una partenza in sordina non abbandona lo spettatore dal turning point (la rapina alla sala giochi) sino all’infausto epilogo.
Confession è una bomba a orologeria innescata e pronta a esplodere sul grande schermo, ma che purtroppo viene disinnescata. Un evidente buco di sceneggiatura e la fragilità del già citato epilogo dell’aeroporto generano un blackout al quale il regista non riesce a porre rimedio. Ciò a malincuore non rende giustizia a un’opera che altrimenti avrebbe guadagnato ben altre posizioni. Dobbiamo per questo accontentarci di un voto che supera ampiamente la sufficienza, attribuito a un film che per almeno un’ora abbondante regala momenti di grande cinema a coloro che sanno riconoscerli. Lee Do-yun firma un mix di noir e thriller sulla perdita dell’innocenza che, pur passando attraverso un plot piuttosto abusato che ha come baricentro un’amicizia tra tre uomini che sognano una vita diversa, riesce comunque a tirare fuori dal cilindro guizzi drammaturgici inaspettati. Ripensandoci ancora una volta, l’amaro in bocca torna a farsi sentire.
Francesco Del Grosso