Vita in una casa di bambola…
Edito nel 1956 e giunto sugli scaffali italiani con sei anni di ritardo, per Urania e con il titolo Tre millimetri al giorno, The Shrinking Man rappresenta la punta di diamante della produzione letteraria di un autore che non è affatto peregrino definire seminale.
Sarebbe ridicolo anche solo pensare di chiarire in questa sede, e per giunta in poche righe, la caratura, l’importanza, il significato di Richard Matheson nel campo della narrativa popolare. Ma un’idea, sia pure tutt’altro che esaustiva, si può comunque cercare di darla. Proviamo a immaginare. Cosa sarebbe del nostro «inconscio tenebroso», e non soltanto in termini letterari, ma cinematografici, culturali tout court, se privati del racconto La preda? Saremmo orfani di un leggendario frammento del terrore e del ghigno mefistofelico della brava Karen Black in coda al gioiellino di Dan Curtis Trilogy of Terror. E senza Duel, sfociato poi nella pietra miliare che consacrò il talento precoce e cristallino di Steven Spielberg? O ancora Incubo a seimila metri, con le sue celebri trasposizioni – una televisiva, con William Shatner, l’altra cinematografica, con l’isterico John Lithgow – in Ai confini della realtà?
Spregiudicato, geniale e spietato manipolatore di «materia degenere», Matheson ha forgiato, letteralmente, il Fantastico Contemporaneo, rianimando un genere che nei primi anni Cinquanta pareva ristagnare, il racconto dell’orrore, infondendogli come un Moderno (e barbuto) Prometeo una scintilla di «realtà minimalista» che insinuò una generosa dose di verosimiglianza alla fiction più oscura e speculativa. Dopo I vampiri, per citare la più celebre e abusata (ma sarebbe meglio dire violentata, specie ripensando al traumatico adattamento con Will Smith) delle sue opere, nulla fu più lo stesso. Le icone e i grandi topoi delle Tenebre trovarono nella fervida immaginazione – e nello stile asciutto e radicale – di Matheson una nuova, simbolica e sorprendente valvola di sfogo: i succhiasangue abbandonavano le loro tetre magioni gotiche e conquistavano le strade, galvanizzati non da un’oscura e primitiva maledizione, ma da un minuscolo, subdolo «ospite», quel germe vampiris che, lo rivendicava con forza lo stesso Matheson, classificava I vampiri come il suo unico, autentico parto fantascientifico. (E chissà che ne sarebbe stato se a tradurlo in celluloide sul finire dei Cinquanta fosse stata la Hammer, che scoraggiata dai giudizi tutt’altro che lusinghieri formalizzati dalla British Board of Film Censors e dalla Motion Picture Association of America a proposito dello script firmato Matheson, titolato The Night Creatures e destinato alla regia di Val «Quatermass» Guest, ne cedette i diritti al produttore Robert Lippert che, nel ’64, ne trasse L’ultimo uomo della terra.)
Sono le angosce della Guerra Fredda, chiosarono alcuni, evocate nello spettro dell’invasione comunista e della perdita d’identità; è opera profetica per quanto concerne l’AIDS, azzardarono altri (naturalmente in tempi più recenti). E pazienza se Matheson, un po’ come Carpenter (altro Autore con la «A» maiuscola), sostenne in più occasioni le ragioni, e con esse il primato, della sintesi sull’analisi, della vis evocativa e fulminante del racconto (e del raccontare) sulla sua sterile, forzata vivisezione esegetica. I vampiri, dichiarò, è la storia di un uomo che lotta per sopravvivere in un mondo popolato da Creature della Notte. Un po’ come The Shrinking Man, seguendo il suo pensiero, è la parabola di un uomo che si riduce di tre millimetri al giorno.
Eppure, l’intuizione con cui Matheson calò l’orrore nella nostra quotidianità, sradicandolo da quelle epoche oscure e da quei luoghi impervi e remoti di cui tanto ci piace leggere confortati dalle conquiste e dalle certezze del progresso «borghese», rappresentò una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione che, come spesso accade, a posteriori corre il rischio di apparire scontata, frutto cioè del naturale corso degli eventi, ma che si abbatté sul panorama letterario post-bellico con la medesima forza dirompente (e iconoclasta) di un colpo di cannone, venendo poi metabolizzata dalle masse quando i topoi mathesoniani, nemmeno a farlo apposta, approdarono sul grande schermo. L’anno, significativamente, è quello delle Rivoluzioni, il 1968. Il film La notte dei morti viventi. Nulla più che una geniale rielaborazione de I vampiri firmata George Romero. A dire che persino gli sgraziati revenant romeriani – coloro che in (dolce) compagnia di Rosemary Woodhouse trasportarono in un contesto urbano e contemporaneo il cinema dell’orrore – devono qualcosa (e anche più) alla penna di Matheson.
Il rapporto tra schermo e letteratura, del resto, è centrale nella vicenda umana e professionale di questo grande affabulatore. Infaticabile quanto versatile, Matheson si dimostrerà abilissimo sceneggiatore contribuendo al successo di Ai confini della realtà, Mistero in galleria e Star Trek, quindi «ideando» per la AIP e Roger Corman il celeberrimo Ciclo di Poe, senza scordare alcuni piccoli, grandi classici televisivi come Trilogy of Terror, The Night Stalker e Il demone nero (un Dracula, quello interpretato da Jack Palance per la regia del «solito» Dan Curtis, fondamentale nel processo di evoluzione «romantica» del conte, e del Vampiro tout court, giunto poi sino a Coppola).
Ma il primo rapporto carnale, pardon creativo con il regno (apparentemente) incantato di Hollywood, Matheson lo consuma proprio sulle pagine di Tre millimetri al giorno. La Universal, vedete, colse al volo la grandezza del romanzo, e subito lo contattò per trattare sui diritti per lo schermo, nella speranza, ma queste sono voci di corridoio, nulla più che pettegolezzi a livello portineria, avrebbe detto Villaggio, di assicurarseli per il canonico piatto di minestra. Peccato che Matheson, ferito e indurito da precedenti infelici circostanze, si dimostrò oltremodo determinato a far valere le proprie ragioni, cedendo infine alle lusinghe della Casa (dei Mostri) soltanto a condizione di adattare personalmente il suo lavoro.
E fu così che, tra le strette maglie del tessuto hollywoodiano, filtrò qualcosa di nuovo. Perché l’epopea del malcapitato Scott Carey, investito da una nube radioattiva (il Grande Spettro della sci-fi anni Cinquanta) che interagendo con uno spray disinfestante lo condanna a rimpicciolirsi e ad affondare nell’angoscia dell’esistere, si conclude, come nel romanzo, in modo tutt’altro che risolutivo; nessun medico scova in extremis un rimedio taumaturgico al «male» che lo affligge (anche se, strano ma vero, fu proprio questo il suggerimento degli executives Universal sul finire della lavorazione, prontamente rispedito al mittente dal regista Jack Arnold), e ci si deve accontentare – si fa per dire – di una «semplice» presa di coscienza, una (ri)conquista esistenziale, se vogliamo. «Giunti a Dio non vi è il Nulla… Io esisto ancora!» esclama Carey venendo a patti con la propria condizione in un mondo che è ormai infinitesimale, e che si apre di fronte a lui nella vasta maestà del creato, sotto forma di nebulose lontane. Un finale sospeso, sorprendente, che costringe lo spettatore a riflettere, a mettersi in gioco. Roba da grande, autentico cinema. Quasi uno «tsunami culturale», se considerate le inclinazioni ferocemente «reazionarie» della Hollywood dei Cinquanta. (Persino la MPAA, per inciso, suggerì un lieto fine per le avventure di Carey…)
Nel tradurre la sua opera per lo schermo, al netto del contributo non accreditato di Richard Alan Simmons, Matheson rinunciò alla struttura del romanzo – tutta giocata sull’artificio del flashback e intesa a dare inizio in medias res alle vicissitudini del minuscolo protagonista – e optò per una forma lineare, leggasi cronologica, di narrazione; soppresse alcuni dei migliori (e più audaci) passi dell’opera: la parentesi del viscido seduttore francofilo (episodio che trasuda una dolente, insostenibile miseria umana), l’eccitato e voyeuristico fantasticare di Carey sulla giovane babysitter tarchiata e foruncolosa (ma del resto viene depennata anche la figlia del protagonista). Ciò che rimane intatto, tuttavia, nitido e angosciante, è il leitmotiv, anzi il paradigma che sta alla base dell’intera produzione mathesoniana: e cioè il dramma di un uomo solo scaraventato in una condizione di disagio psicologico, oltre che fisico, incomunicabile e terribile. Un uomo comune «imprigionato» in un contesto straordinario.
E qui subentra il tocco di un grande cineasta. Perché se da una parte c’è Matheson, dall’altra c’è Jack Arnold.
Nessuno meglio di lui, che con il Fantastico più arguto danzava già da qualche anno, poteva dirigere The Incredible Shrinking Man (ma perché mai aggiungere l’aggettivo, si chiese Matheson? E chi lo sa, ma sempre meglio del titolo con cui il film approdò nelle nostre sale: Radiazioni B X Distruzione Uomo). Consacrato dai leggendari Destinazione Terra e Il mostro della laguna nera, Arnold si gettò nell’impresa rivendicando (e ottenendo) una totale indipendenza e alternando «quadri» di rara evocatività (dalle onde che seguono i titoli di testa all’agghiacciante «muraglia bianca» che si avventa su Carey divorando l’orizzonte marino) a sequenze spettacolari i cui effetti speciali (firmati Clifford Stine) annientano per ingegno, meraviglia e bellezza gli inerti artifici di tanta moderna CGI. Su tutte, celeberrime, le «battaglie» con il gatto che stana Carey dalla sua casa di bambola e, successivamente, con la raccapricciante tarantola che, forse in onore del più recente classico di Arnold, Tarantola, appunto, subentra alla vedova nera del romanzo.
Ma sono i momenti più intimi e struggenti a colpire come un pugno allo stomaco, testimonando il talento e l’innata sensibilità del regista nell’arte del racconto-per-immagini. La fede nuziale che scivola dal dito di Carey e cade a terra, funzionale antefatto al progressivo sgretolarsi di un rapporto che viene messo a dura prova dai fantasmi di un uomo che si scopre suo malgrado inadeguato; o la scena in cui il fratello del Nostro pare rivolgersi a una poltrona vuota, di cui vediamo il lato posteriore; ma poi, in uno stridere di archi, ecco il controcampo sul «piccolo» Carey, curvo e vulnerabile come un bimbo imbronciato su un «trono» che sembra divorarlo. Una magnifica rappresentazione visiva della più insolita e straziante (a)normalità.
Non sempre la pellicola restituisce il senso di angoscia che pervade le pagine del romanzo, il cupio dissolvi che accarezza l’animo fragile e tormentato del protagonista, ma dello sguardo lucido e inflessibile di Matheson rimane quanto basta a porre l’opera di Arnold un gradino al di sopra di tanti classici, o presunti tali, della sci-fi anni Cinquanta.
E del resto, con le sue brillanti intuizioni (una su tutte: i preservativi riempiti d’acqua a simulare le enormi gocce che si schiantano sul pavimento), Radiazioni B X rimane un piccolo grande apologo sulla speranza, l’ingegno e la sopravvivenza.
O, se preferite, una meravigliosa avventura.
Stefano Leonforte