Falsi d’autore
Lee Israel è un’acclamata biografa che, tra gli anni Settanta e Ottanta, ha raggiunto il successo delineando le vite di Katherine Hepburn, Tallulah Bankhead, Estée Lauder e della giornalista Dorothy Kilgallen. Quando si ritrova a far fronte alle difficoltà di pubblicazione, perché ormai fuori dal mercato editoriale, Lee imprime un ardito e irreversibile cambiamento alla sua carriera: indirizza le proprie doti di scrittrice verso il crimine, il furto e l’inganno, con la complicità di Jack, suo amico fedele. Senza un lavoro e sommersa dai debiti per cercare di sopravvivere la donna si improvvisa falsaria scrivendo centinaia di lettere con lo stile di celebri scrittori per poi venderle come originali; successivamente inizia a rubare lettere e carte autografe originali da archivi e biblioteche, sostituendole coi i suoi falsi. Tutto sembra filare liscio sino a quando entra nel mirino dell’FBI ed è costretta a dichiararsi colpevole di fronte a una corte di giustizia federale.
Letta la sinossi si fa fatica a credere che la protagonista e le vicende narrate nel film in questione non siano false come le lettere e le firme in calce incriminate, eppure di storie così ne sono accadute e la Settima Arte nel suo secolo e passa di vita le ha portate via via sul grande schermo. Destino che è toccato anche alla storia vera di Lee Israel, scrittrice e giornalista americana che, per via di un carattere difficile e di alcuni problemi con l’alcool, in seguito ad un grande flop e vittima del tanto temuto foglio bianco, si è macchiata la fedina penale con i suddetti crimini, finendo con l’essere bannata dagli archivi e dalle biblioteche pubbliche e condannata nel giugno del 1993 a sei mesi di arresti domiciliari e a cinque anni di libertà vigilata. Israel a quel punto riprese la sua carriera di biografa, e nel 2008 pubblicò “Can You Ever Forgive Me?”, un memoriale in cui raccontava nel dettaglio la sua epopea criminale. Ed è proprio da quelle pagine che ha preso forma e sostanza narrativa e drammaturgica l’omonima pellicola di Marielle Heller, distribuita in Italia da 20th Century Fox con il titolo Copia originale a distanza di una manciata di mesi dalla proiezione alla 36edima edizione del Torino Film Festival. Pellicola, questa, che la protagonista e autrice del memoriale però non ha avuto e non avrà la possibilità di vedere. Lee Israel, infatti, è deceduta la vigilia di Natale del 2014 e il destino ha voluto che pochi mesi dopo venisse annunciata l’intenzione di fare del suo libro e della sua storia un film. E così è stato, diventando la materia prima dell’opera seconda di Marielle Heller, già autrice del pluridecorato e pregevole debutto The Diary of a Teenage Girl, che dalla sua anteprima mondiale al Telluride Film Festival 2018 sino ad oggi ha collezionato una serie di onorificenze, tra cui tre nomination agli Oscar 2019, per la miglior sceneggiatura non originale, la migliore attrice protagonista e il miglior attore non protagonista.
Non è un caso che le scelte dei membri dell’Academy siano cadute proprio su quelli che a conti fatti sono i punti forti di Copia originale, a cominciare da una scrittura che, fatta eccezione per qualche fragilità nella parte centrale, riesce a restituire il folle e disperato tentativo di sopravvivenza di una figura fuori dagli schemi come quella della Israel. Trattasi dunque di un biopic parziale che mescola senza soluzione di continuità dramma e commedia per raccontare le disavventure lavorative ed esistenziali di un’intellettuale e letterata borderline, una delle tante passate alle cronache non per il talento ma per gli errori commessi nel provare a metterlo in mostra. Quello dipinto sullo schermo dalla cineasta e attrice californiana è un ritratto tragicomico che fa dello humour pungente e politicamente scorretto, dal retrogusto più british che a stelle e strisce a dire il vero, il veicolo per conquistare l’attenzione dello spettatore. Al resto ci pensano gli interpreti chiamati in causa, ben diretti e supportati dalla regia della Heller, capitanati da una Melissa McCarthy ad altissimi livelli, gli stessi raggiunti nel 2012 con la perfomance offerta in Le amiche della sposa (che le valse la prima nomination agli Oscar). È lei a dare corpo e voce ad un personaggio complesso da trasporre e a rischio macchietta. Per fortuna la poliedrica attrice di Plainfield ha saputo addomesticarla e farla sua, restituendo sullo schermo le tante sfumature caratteriali della protagonista, tanto da non farci rimpiangere quella che nel 2014 era stata la prima scelta, ossia Julianne Moore.
Francesco Del Grosso