Cuori nella tormenta
Come tantissimi colleghi, connazionali e non, anche Meg Ryan ha voluto provare il brivido della regia passando dietro la macchina da presa, ma senza rinunciare al primo amore, quello per la recitazione, decidendo per tanto di sdoppiarsi per interpretare uno dei personaggi del film che ha deciso di dirigere. Lo ha fatto nove anni fa al tempo dell’esordio con Ithaca, trasposizione del romanzo del 1943, The Human Comedy, di William Saroyan. Un’esordio, quello, non particolarmente fortunato dal punto di vista dell’accoglienza del pubblico e della critica. Il ché l’avrà convinta a riprovarci cambiando però genere, passando dal dramma a sfondo bellico a quella che si può considerare senza se e senza ma la sua comfort-zone, vale a dire quella commedia romantica della e per la quale, soprattutto negli anni Novanta, ha rappresentato una vera e propria icona. Ecco allora approdare sugli schermi nostrani a partire dall’11 aprile con Universal Pictures, pochi giorni dopo la proiezione in anteprima alla 15esima edizione del Bif&st, la sua opera seconda dal titolo Coincidenze d’amore (What Happens Later).
Suo e nostro malgrado purtroppo le cose non sono andate meglio per l’attrice e regista statunitense che riesce persino a fare peggio della prima volta nonostante si sia confrontata con un filone e un tipo di commedia a lei congeniale e familiare, che come interprete ha frequentato piuttosto assiduamente al punto da entrare nell’immaginario con pellicole come Harry, ti presento Sally.., C’è post@ per te e Insonnia d’amore. Con l’adattamento cinematografico della pièce Shooting Star di Steven Dietz, co-scritto insieme all’autore e a Kirk Lynn, la Ryan ha provato, diciamo piuttosto furbescamente, a rievocare quei sapori e quelle atmosfere che ci hanno fatto innamorare di lei e del suo inconfondibile sorriso provando a replicare la ricetta dei bei tempi che furono. Ma come già anticipato il risultato non le ha dato ragione, al contrario ha messo ulteriormente in evidenza le sue scarse qualità registiche che in Coincidenze d’amore appaiono ancora più evidenti. Se nella precedente esperienza la confezione aveva quantomeno tenuto a galla l’operazione, tamponando ove possibile i limiti della scrittura, in questo caso sia la regia che la fotografia, piuttosto che l’intero impianto tecnico hanno lasciato molto a desiderare. La Ryan sia dietro che davanti la cinepresa ha risentito, così come il suo compagno di avventura David Duchovny (l’agente Mulder di X-Files), di un impianto teatrale troppo ingombrante che fagocita e rigetta i tentativi in fase di scrittura, messa in quadro e interpretazione, rendendoli vani, di dare una veste e un’indipendenza cinematografiche al progetto. Ecco allora che l’aeroporto, con tutti gli spazi messi a disposizione, che fa da cornice alla vicenda narrata, quella di due due fidanzati ai tempi dell’università che vent’anni dopo per uno strano scherzo del destino si trovano bloccati a causa di una nevicata che li costringe a ripercorrere la loro tumultuosa storia d’amore e le ragioni che hanno portato alla dolorosa rottura, non si tramuta in un set come è necessario che sia, bensì continua ad essere un palcoscenico nel quale portare in scena la matrice originale in forma audiovisiva.
Si assiste a conti fatti a una crisi d’identità che porta Coincidenze d’amore a un cortocircuito esistenziale, creativo, narrativo e drammaturgico, sul quale pesa come un macigno l’incapacità dell’autrice e dei suoi collaboratori di staccarsi del testo teatrale, arrivando a concepire qualcosa che più che un prodotto audiovisivo sembra teatro filmato. Nessun tocco personale o contributo alla causa degno di nota viene dunque da segnalare, piuttosto si registra un peggioramento strutturale che si manifesta mediante un irritante accumulo di finali che ci fa difendere ulteriormente l’idea che certi testi dovrebbero rimanere lì dove sono nati.
Francesco Del Grosso