La Francia di Rohmer in pillole
Le retrospettive sono da sempre il fiore all’occhiello del Bergamo Film Meeting, sia che esse mettano in luce il percorso di autori emergenti, sia che rendano omaggio a qualche Maestro del cinema mondiale. In tal senso la quarantaduesima edizione del festival orobico ha calato sul piatto ben due assi, puntando con decisione i riflettori sulla Francia: da un lato Sacha Guitry, dall’altro Éric Rohmer. Visioni del fare cinema alquanto differenti, per certi versi opposte, ma ugualmente sature di una cultura umanistica vivace, profonda e stratificata.
Nel caso di Rohmer è sempre una gioia poter rivedere i tanti capolavori da lui realizzati sul grande schermo. Ma una retrospettiva come quella bergamasca può essere fonte anche di scoperte e rivelazioni, specie se si comincia a pescare nei rivoli meno noti della sua filmografia, ad esempio la produzione breve. E così siamo rimasti incantati di fronte al corto girato dal cineasta transalpino nel 1964, Nadja à Paris.
Innanzitutto, come considerare il cortometraggio in questione? Esso ci si presenta quale breve documentario in bianco e nero, durante il quale l’autore almeno all’apparenza si limiterebbe a pedinare la giovane Nadja (ovvero Nadja Tesich), studentessa universitaria jugoslava di nascita e americana d’adozione, mentre si trova a Parigi per preparare una tesi su Marcel Proust.
Eppure, nel raccontare il soggiorno della ragazza nella capitale francese, Rohmer pare riprendere il concetto di caméra-stylo rapportandone l’essenza, quella natura di strumento creativo e flessibile, ai diversi luoghi attraversati da Nadja e ai vari incontri che la ragazza fa girovagando per i diversi quartieri della città. Una sintesi cinematografica asciutta, volendo, ma in cui si respirano una libertà stilistica e un’armonia interiore invidiabili. Con un’attenzione per le piccole cose che assume persino un timbro proustiano, volendo giocare un pochino con l’accenno iniziale all’oggetto della tesi, sebbene la studentessa della Sorbona appaia da subito più interessata ai diversi aspetti della vita parigina che al concretizzare un percorso di studi.
Nadja à Paris diventà così caleidoscopico ritratto della città. Dalla Citè universitarie la narrazione si sposta di continuo ad altri luoghi fortemente evocativi, siano essi parchi meno noti della periferia oppure vie della rive gauche frequentate da artisti e intellettuali, passando però per il proletario quartiere di Belleville dove Nadja appare maggiormente divertita, a contatto con l’anima più popolare della capitale francese. Ecco, sono tutti bozzetti molto brevi, rapidi. Ma è come se di fronte al taglio impressionistico dell’opera, che si bea anche delle sensazioni offerte da personaggi inquadrati per un solo istante o del fascino che i vialetti di un giardino e i tavolini sia interni che esterni del classico caffè parigino possono emanare, lo spettatore di oggi potesse cogliere in nuce il cinema di Rohmer che verrà successivamente, con quelle lunghe passeggiate all’aperto, i fitti dialoghi impostati camminando fianco a fianco e la simbiosi perfetta tra determinati ambienti e i personaggi che li abitano.
Stefano Coccia