Ricordi di famiglia
La Pixar è sempre la Pixar. Da considerare cioè un piccolo patrimonio per il mondo del cinema e soprattutto nei riguardi di un’umanità non solamente in età verdissima. Questo anche se la fusione con la Disney ha certamente incrementato i ritmi produttivi a conseguente scapito dei picchi qualitativi del passato. L’ultimo vero acuto era infatti ormai datato 2015, con lo stratificato e fantasmagorico Inside Out; mentre a quest’ultimo sono seguiti lungometraggi abbastanza interlocutori come Il viaggio di Arlo (2015), Alla ricerca di Dory (2016) ed il terzo capitolo della saga Cars (2017). Arriviamo dunque a questo Coco, diretto dal veterano della Pixar Lee Unkrich (tra gli altri autore di Toy Story 3 – La grande fuga del 2010) in collaborazione con Adrian Molina e film prescelto come regalo natalizio per grandi e piccini dalla Casa Madre disneyana.
Il plot ci porta in Messico, dove il giovanissimo Miguel Rivera vorrebbe intraprendere una carriera da musicista simil-mariachi ad altissimo livello. Il talento ci sarebbe anche, pure per una questione genetica; ma è la composita famiglia, specializzatasi da tempo nella fabbrica artigianale di scarpe, ad opporsi strenuamente a tale vocazione – nonché alla musica in genere – a causa dell’abbandono del tetto coniugale da parte di un lontano antenato al fine di abbracciare, appunto, una carriera musicale. Sarà necessaria una lunga giornata, quella del tradizionale Dia de los muertos messicano, a riscrivere le verità di un’epopea famigliare che sembravano irrimediabilmente sepolte da un Tempo creatore anche di falsi miti ed autentici impostori.
Come sempre accade nelle opere targate Pixar, al centro della narrazione c’è il tema del viaggio come racconto ineludibile di formazione. Uno spostamento fisico e temporale che in Coco – il titolo rimanda al nome della tenerissima bisnonna del giovane Miguel – si trasforma nell’incantato passaggio verso un’altra dimensione, quella di un mondo popolato da defunti. Immediatamente, il pensiero cinefilo corre all’universo cinematografico di Tim Burton, che conobbe il suo apogeo – tanto per restare in tema animazione – con La sposa cadavere del 2005. Se Coco non raggiunge i vertici poetici dell’opera burtoniana appena menzionata è proprio per la sua caratteristica di film-omaggio, derivativo per sua stessa natura e sin troppo proteso a replicare quello che aveva fatto grande il regista di Big Fish: una visione dark e romantica di un aldilà popolato da personaggi con le medesime pulsioni e slanci sentimentali, per giunta esaltate da quei rimpianti che accomunano chiunque, anche degli abitanti del mondo dei vivi. Un luogo dove le apparenze possono ingannare al pari di quegli ambienti che rimangono ogni giorno sotto i nostri occhi. E tuttavia, nonostante uno spirito disincantato e perciò consapevole, non mancano anche in Coco momenti di genuina emozione straordinariamente costruiti non solo per merito della meravigliosa impalcatura formale dell’insieme. Ad una tecnica d’animazione come sempre sopraffina si affianca infatti una riuscita ricognizione morale sull’importanza di preservare la memoria capace di elevare il film ad oggetto di squisito valore pedagogico nei confronti di “bambini” di ogni età. Alla stregua di un piccolo miracolo che si rinnova.
In fondo il messaggio formativo veicolato da Coco è quello della spinta al raggiungimento di una visione armonica delle cose: intraprendere la propria strada tenendo fino ad un certo punto conto delle aspettative altrui. Perché il quadro della vita, oltretutto, può mutare in qualsiasi momento. Basta volerlo con forza. Una cristallina semplicità di fondo che rende Coco, nonostante il difetto di una dilatazione dei tempi narrativi talvolta eccessiva, un’opera tutt’altro che minore, da vedere per appagare in primo luogo l’immediatezza dello sguardo; finalizzando poi il cammino morale del film meditandoci sopra assieme ai propri figli. Ma anche senza.
Daniele De Angelis