Kafka in Unione Sovietica
Città zero (Город Зеро) è un lungometraggio di Karen Šachnazarov, girato nel 1988 ed inserito poi nella Quinzaine des Réalisateurs del 42º Festival di Cannes. Tra i film del cineasta russo selezionati per la stuzzicante retrospettiva, che ha avuto luogo di recente a Roma, è assieme a White Tiger quello che ci ha impressionato di più, per la forte vena surrealista e per l’anelito a scandagliare in profondità i malesseri di un’Unione Sovietica ormai al tramonto.
Un ingegnere dal carattere estremamente metodico viene inviato, per conto della società statale presso la quale lavora, in una cittadina di provincia i cui abitanti manifestano tutti a turno comportamenti stranissimi, talvolta incomprensibili. Si troverà così coinvolto in una catena inarrestabile di tragicomici eventi. Ed uscire dalla città per tornare a Mosca non sarà affatto facile, per il protagonista, neanche fosse quel Francesco Dellamorte determinato a lasciare una volta per tutte l’inquietante Buffalora, in Dellamorte Dellamore di Michele Soavi…
Forte anche di una fotografia molto curata, incline a valorizzare le tonalità cupe e le notti inquiete della cittadina russa, per poi acquisire venature pop nelle ironiche ed istrioniche sequenze che intendono parodiare l’arrivo del rock & roll in Unione Sovietica, immaginifico punto di rottura cui fa seguito il vibrante anatema dei baluardi della morale socialista, Città zero è una distopia cinematografica orchestrata con stile e con notevolissima inventiva.
Surreale, grottesco, sottilmente ansiogeno, il film di Šachnazarov pone lo sventurato protagonista all’interno di un ingranaggio dall’impronta decisamente kafkiana, in cui ogni disavventura pare il prodotto di una società grigia, spenta, dissociata, burocratizzata, attenta a ogni richiesta formale ma svuotata ormai di qualsiasi contenuto. I siparietti paradossali che ne derivano sono tutti intrisi di una feroce ironia e di una spinta verso la surrealtà quotidiana, verso il nonsense, che oscilla di continuo tra Buñuel e Ionesco. Precedendo di quasi 15 anni le sontuose immagini del capolavoro di Sokurov, Arca russa, il regista è andato inoltre a inventarsi la visita del protagonista a un fantasmagorico museo etnografico, che sketch dopo sketch trasfigura in modo farsesco la Storia (più o meno) recente della Russia e dell’Europa, riducendo anch’essa a teatro dell’assurdo. Chapeau!
Stefano Coccia